Ricorso proposto dalla Regione Veneto, (C.F. 80007580279 - P.IVA
02392630279), in persona del Presidente della Giunta Regionale  dott.
Luca Zaia (C.F. ZAILCU68C27C957O),  autorizzato  con  delibera  della
Giunta regionale n. 150 del 31 gennaio 2012 (all. 1), rappresentato e
difeso, per mandato a margine del  presente  atto,  tanto  unitamente
quanto  disgiuntamente,  dagli  avv.ti  prof.   Bruno   Barel   (C.F.
BRLBRN52D19M089Z) del Foro di  Treviso,  prof.  Luca  Antonini  (C.F.
NTNLCU63E27D869I)   del   Foro   di   Milano,   Ezio   Zanon    (C.F.
ZNNZEI57L07B563K)  coordinatore  dell'Avvocatura  regionale,  Daniela
Palumbo (C.F. PLMDNL57D69A266Q) della Direzione Affari Legislativi  e
Luigi Manzi (C.F. MNZLGU34E15H501V) del Foro di Roma,  con  domicilio
eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri, n.
5 (per eventuali comunicazioni:  fax  06/3211370,  posta  elettronica
certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org); 
    Contro il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  pro  tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  presso
la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; 
    Per  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  delle
seguenti disposizioni del decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.  201,
cosi' come convertito in legge, con  modificazioni,  dalla  legge  di
conversione 22 dicembre  2011,  n.  214,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011: 
        dell'art. 5, per violazione degli articoli 3, 117, III  e  IV
comma; 118, I e II comma; 119 della Costituzione e del  principio  di
leale collaborazione tra Stato e Regioni di cui  all'art.  120  della
Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 14, per violazione degli articoli 118,  I
e II comma, della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 15, per violazione degli articoli 3, 5  e
114 della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 16, per violazione degli articoli  l,  5,
114, 138 della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 17, per violazione degli articoli 3, 5  e
114 della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 18, per violazione degli articoli 118,  I
e II comma, e 120 della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma  19,  per  violazione  dell'articolo  119
della Costituzione; 
        dell'art. 23, comma 20, per violazione degli articoli 1, 3, 5
e 114 della Costituzione; 
        dell'art. 27, per violazione degli articoli 117,  118  e  119
della Costituzione; 
        dell'art. 31, comma I, per  violazione  degli  articoli  114,
117, I e IV comma, 118 della Costituzione; 
        dell'art. 35, per violazione degli articoli 3, 97,  I  comma,
113, I comma, della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e  II  comma,
nonche' della legge costituzionale  18  ottobre  2001,  n.  3  e  del
principio  di  leale  collaborazione  di  cui  all'art.   120   della
Costituzione; 
        dell'art. 44-bis, per violazione degli articoli 97, 117 e 118
della Costituzione e del principio di  leale  collaborazione  di  cui
all'art. 120 della Costituzione; 
    Con istanza di sospensione dell'art. 23, commi  da  14  a  20,  e
dell'art. 31, comma 1. 
Premessa. 
    Il  decreto-legge  n.  201/2011,  cosi'  come   convertito,   con
modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011,  n.  214,
pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, contiene  numerose
disposizioni che contrastano con il quadro complessivo dell'autonomia
territoriale   cosi'   come   risultante   dalla    Costituzione    e
conseguentemente ledono il sistema  costituzionale  delle  competenze
riconosciute alla Regione. 
    In particolare, l'art.  5  del  decreto-legge  prevede:  «1.  Con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,  su  proposta  del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali,  di  concerto  con  il
Ministro dell'economia e delle finanze,  da  emanare,  previo  parere
delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31  maggio  2012,
sono rivisti le modalita' di determinazione e i campi di applicazione
dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) al fine
di: adottare una definizione di reddito disponibile  che  includa  la
percezione di somme, anche se esenti da imposizione  fiscale,  e  che
tenga conto delle quote  di  patrimonio  e  di  reddito  dei  diversi
componenti della famiglia nonche' dei pesi dei carichi familiari,  in
particolare dei figli successivi al secondo e di persone  disabili  a
carico;   migliorare   la   capacita'   selettiva    dell'indicatore,
valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale  sita  sia
in Italia sia all'estero, al netto del debito residuo per  l'acquisto
della stessa e tenuto conto delle imposte  relative;  permettere  una
differenziazione  dell'indicatore  per  le   diverse   tipologie   di
prestazioni. Con il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni
fiscali e tariffarie nonche' le provvidenze di  natura  assistenziale
che, a decorrere  dal  1°  gennaio  2013,  non  possono  essere  piu'
riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia
individuata con il decreto  stesso.  Con  decreto  del  Ministro  del
lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro
dell'economia e delle finanze, sono definite  le  modalita'  con  cui
viene rafforzato il sistema dei controlli dell'ISEE, anche attraverso
la   condivisione   degli   archivi   cui   accedono   la    pubblica
amministrazione e gli enti pubblici e prevedendo la  costituzione  di
una banca dati  delle  prestazioni  sociali  agevolate,  condizionate
all'ISEE, attraverso l'invio telematico all'INPS, da parte degli enti
erogatori, nel rispetto delle disposizioni del codice in  materia  di
protezione dei dati personali,  di  cui  al  decreto  legislativo  30
giugno 2003, n. 196,  delle  informazioni  sui  beneficiari  e  sulle
prestazioni  concesse.  Dall'attuazione  del  presente  articolo  non
devono derivare  nuovi  o  maggiori  oneri  a  carico  della  finanza
pubblica. I risparmi derivati dall'applicazione del presente articolo
a  favore  del  bilancio  dello  Stato  e  degli  enti  nazionali  di
previdenza e di assistenza  sono  versati  all'entrata  del  bilancio
dello Stato per essere riassegnati al Ministero del  lavoro  e  delle
politiche  sociali  per   l'attuazione   di   politiche   sociali   e
assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle  politiche
sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze,
si  provvede  a  determinare   le   modalita'   attuative   di   tale
riassegnazione». 
    In questi termini,  la  norma  prevede:  a)  l'emanazione  di  un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,  su  proposta  del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali,  di  concerto  con  il
Ministro dell'economia  e  delle  finanze,  per  la  revisione  delle
modalita'   di   determinazione   ed   i   campi   di    applicazione
dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee); b)  la
definizione, con decreto del Ministro del lavoro  e  delle  politiche
sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze,
delle modalita' con cui viene rafforzato  il  sistema  dei  controlli
dell'Isee; c) la determinazione, sempre con decreto del Ministro  del
lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro
dell'economia e delle finanze, delle modalita' di  riassegnazione  al
Ministero  del  lavoro  e  delle  politiche  sociali  dei   risparmi,
derivanti   dall'attuazione   delle   nuove   norme,   da   destinare
all'attuazione di politiche sociali e assistenziali. 
    Nel prevedere una revisione dell'Isee, nella disposizione non  si
fa nessun cenno ad un'intesa con  le  Regioni  o  con  la  Conferenza
unificata,  cosi  come  non  si  prevede  nulla  in  relazione   alla
possibilita' per gli enti  erogatori  di  modulare  diversamente  gli
indicatori. 
    Si tratta di previsioni procedurali e sostanziali che erano state
previste dalla disciplina attualmente in  vigore  -  seppure  emanata
prima della  riforma  del  Titolo  V  della  Costituzione  -  che  ha
significativamente  aumentato  l'autonomia  regionale  nella  materia
della assistenza sociale. Gia' il  decreto  legislativo  n.  130  del
2000, infatti, nel modificare il decreto legislativo 31  marzo  1998,
n. 109, istitutivo dell'Isee, era stato emanato sentita la Conferenza
unificata. Oltre a queste gravi omissioni,  la  stessa  procedura  da
seguire appare alquanto  anomala,  dal  momento  che  assegna  ad  un
decreto del Presidente del Consiglio  dei  Ministri,  che  non  viene
nemmeno  qualificato  come  di  natura  regolamentare,  la  forza  di
modificare una disciplina stabilita da fonti primarie. La  previsione
che i risparmi derivanti  dall'attuazione  delle  nuove  norme  siano
determinati con decreto ministeriale e riassegnati al  Ministero  del
lavoro,  infine,  non  sembra  considerare  minimamente  la   stretta
interconnessione che esiste tra le  politiche  regionali  in  materia
sociale   e   socio   assistenziale   che   spesso   hanno   assunto,
volontariamente o perche' tenute a  farlo,  l'indicatore  in  oggetto
come parametro. 
    L'art. 23 del decreto-legge in oggetto  ai  commi  15,  16  e  17
trasforma  la  Provincia  da  ente  politico  rappresentativo   della
popolazione inclusa nell'ambito territoriale di riferimento a ente di
secondo grado, i cui  organi  di  governo  sono  identificati  in  un
Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti eletti
dai Consigli  comunali  e  in  un  Presidente  eletto  dal  Consiglio
provinciale tra i suoi componenti. Per le modalita'  di  elezione  si
rinvia a una legge statale da emanare entro il 31 dicembre 2012. 
    Per gli organi provinciali che  vanno  al  rinnovo  entro  il  31
dicembre 2012 il comma 20  dell'art.  23  del  decreto-legge  dispone
l'applicazione, sino al 31 marzo  2013,  dell'art.  141  del  decreto
legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento  e  sospensione  dei
consigli comunali e provinciali». 
    In questo modo - con alcuni  commi  di  una  disposizione  di  un
decreto-legge, all'interno di un articolo alquanto  eterogeneo,  dove
si tratta ad esempio della riduzione  dei  componenti  del  Consiglio
Nazionale  della  Economia  e  del  Lavoro  e  di   altre   Autorita'
indipendenti   -   viene   disciplinato   un    tema    eminentemente
costituzionale: in proposito, basta considerare il  dibattito  svolto
dall'Assemblea costituente sulla  soppressione  delle  Province  come
enti autonomi in relazione alla nascita delle Regioni. 
    E'  evidente  che  le  Province  sono   state   concepite   dalla
Costituzione come enti di governo locale, elettivi di primo grado,  e
che questa posizione e' stata confermata e rafforzata con la  riforma
del Titolo V, anzitutto nel nuovo art. 114 dove si  prevede  che  «la
Repubblica e' costituita dai Comuni,  dalle  Province,  dalle  Citta'
metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». 
    La tecnica normativa utilizzata  appare  poi  irragionevole  dove
disciplina il destino degli  organi  provinciali  che  devono  essere
rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno porre  un'apposita
disciplina,  il  comma  20  dell'art.  23  del  decreto-legge  rinvia
all'art. 141 del T.u.e.l., che regolamenta ipotesi del tutto  diverse
da quella in oggetto.  Tale  disposizione,  infatti,  attiene  a  ben
precise  cause,  riguardanti  la   dinamica   patologica   che   puo'
verificarsi in un ente territoriale quando un  Consiglio  provinciale
compia  atti  contrari  alla  Costituzione  o  gravi  e   persistenti
violazioni di legge; quando non possa essere  assicurato  il  normale
funzionamento degli organi e dei servizi per: impedimento permanente,
rimozione, decadenza,  decesso  o  dimissioni  del  presidente  della
provincia;  nel  caso  di  cessazione  dalla  carica  per  dimissioni
contestuali,  ovvero   rese   anche   con   atti   separati   purche'
contemporaneamente presentati al protocollo  dell'ente,  della  meta'
piu' uno dei membri assegnati;  nel  caso  di  riduzione  dell'organo
assembleare per impossibilita' di surroga alla meta'  dei  componenti
del consiglio; quando non sia approvato nei termini il  bilancio.  In
questi casi i'  consigli  provinciali  vengono  sciolti  con  decreto
presidenziale, su  proposta  del  Ministro  dell'interno;  e  con  il
decreto di scioglimento si provvede alla nomina  di  un  commissario,
che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto  stesso.  E'
la dinamica patologica che si e' verificata nell'ente a  giustificare
il commissariamento, con  la  sospensione  del  potere  dei  soggetti
democraticamente eletti. Nulla a che fare, quindi, con una ipotesi di
scioglimento derivante dalla stessa previsione legislativa. 
    La previsione del comma 14 dell'art.  23  del  decreto  impugnato
stabilisce  poi  che  «spettano  alla  Provincia  esclusivamente   le
funzioni di indirizzo e  coordinamento  delle  attivita'  dei  Comuni
nelle materie e nei limiti indicati con legge  statale  e  regionale,
secondo le rispettive competenze». 
    In questo modo vengono svuotate le funzioni amministrative  delle
Province  e  ridotte  esclusivamente  a  funzioni  di   coordinamento
dell'attivita' dei Comuni. 
    Tale disposizione, oltre a porsi in contrasto con  le  previsioni
degli art.117, II comma, lett. p), e 118, II comma, dove  si  afferma
che le Province sono titolari di funzioni amministrative fondamentali
e proprie, oltre a quelle conferite con legge  statale  o  regionale,
comprime indebitamente la competenza legislativa regionale che  nelle
materie di propria competenza, anche residuale, si trova  limitata  a
poter trasferire solo funzioni  di  indirizzo  e  coordinamento,  non
potendo piu' configurarsi come il soggetto  deputato  a  declinare  i
principi  di  sussidiarieta',  adeguatezza  e  differenziazione  come
invece  stabiliscono   i   primi   due   commi   dell'art.118   della
Costituzione. 
    La  previsione  del  comma  18  dell'art.  23  del  decreto-legge
rafforza poi la lesione delle competenze regionali, la' dove  prevede
che: «Lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive
competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il  31  dicembre
2012, le funzioni conferite dalla normativa  vigente  alle  Province,
salvo che, per assicurarne  l'esercizio  unitario,  le  stesse  siano
acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi  di  sussidiarieta',
differenziazione ed adeguatezza. In  caso  di  mancato  trasferimento
delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre  2012,  si
provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della  legge  5
giugno 2003, n. 131, con legge dello  Stato».  Lo  svuotamento  delle
funzioni  fondamentali,   proprie   e   conferite,   previste   dalla
legislazione statale e regionale vigente,  ai  sensi  degli  articoli
117, II comma, lett. p) e 118, II comma, e' destinato ad  avvenire  -
secondo la logica della disposizione - con legge statale o regionale,
entro il 31 dicembre 2012, assegnando tali funzioni ai Comuni o  alle
Regioni. In  questo  modo,  pero',  la  disposizione  esclude  che  i
principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione si possano
riferire, al di fuori del mero coordinamento, alle Province e prevede
un  illegittimo  intervento  del  potere  sostitutivo   statale   nei
confronti della Regione, oltretutto attivato  dalla  scadenza  di  un
termine irragionevolmente breve. 
    Il comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato, infine,  dispone:
«Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze,  provvedono
altresi'  al  trasferimento  delle  risorse  umane,   finanziarie   e
strumentali per l'esercizio delle  funzioni  trasferite,  assicurando
nell'ambito  delle  medesime  risorse  il  necessario   supporto   di
segreteria per  l'operativita'  degli  organi  della  provincia».  In
sostanza, la disposizione prefigura uno scenario  dove  le  Province,
sostanzialmente  svuotate  dalle  attuali  funzioni   amministrative,
ricevono,  dallo  Stato  e  dalle  Regioni,  risorse  solo   per   lo
svolgimento del supporto di segreteria ai propri  organi.  In  questi
termini,  la  disposizione  appare  sostanzialmente   contraddittoria
rispetto al quadro dell'autonomia finanziaria  provinciale  disegnato
dall'art. 119 della Costituzione e altera, essendo configurabile come
norma statale di coordinamento  della  finanza  pubblica,  lo  stesso
rapporto dell'autonomia finanziaria regionale con quella  provinciale
e comunale. Tale rapporto viene infatti  prefigurato  in  termini  di
finanza  meramente  derivata:  alle  leggi  regionali  si  impone  di
trasferire risorse, non di configurare un'autonomia finanziaria. 
    In sostanza, l'impianto normativo costituito dai commi da 14 a 20
dell'art. 23 del decreto impugnato appare da numerosi punti di  vista
in palese contrasto con la Costituzione  e  potenzialmente  idoneo  a
creare gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti  di  costi
maggiori dei risparmi che potrebbe produrre. 
    La revisione o la razionalizzazione costituzionale dei livelli di
governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro  ritenersi
opportuna,  ma  deve  essere  attuata  con  una  legge  di  revisione
costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione  e  delle
diverse soluzioni possibili, e con un adeguato dibattito. 
    Soluzioni    improvvisate,    tecnicamente    e    economicamente
discutibili, con aperti ed evidenti profili  di  incostituzionalita',
creano  guasti  gravi  ed  irreparabili  al  sistema  in  termini  di
gestibilita' e di costi aggiuntivi. 
    L'articolo 27 del decreto-legge  contiene  una  nuova  disciplina
sulla valorizzazione, trasformazione,  gestione  ed  alienazione  del
patrimonio immobiliare pubblico, che  in  piu'  punti  appare  lesiva
delle competenze costituzionali della  Regione.  In  particolare,  il
comma I inserisce un nuovo articolo  (33-bis)  nel  decreto-legge  n.
98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011,  n.
111, prevedendo la facolta' per l'Agenzia del Demanio  di  costituire
societa', consorzi e fondi  immobiliari  per  la  valorizzazione  del
patrimonio pubblico, anche se  appartenente  a  Regioni,  Province  e
Comuni. Dispone inoltre che «Qualora le iniziative di cui al presente
articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano  i  soggetti
apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del
demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni
di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e di  struttura
tecnica di supporto», assegnando poi all'Agenzia del demanio un ruolo
determinante  nell'individuare,  «attraverso  procedure  di  evidenza
pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti»  e  prevedendo
che la stessa Agenzia, «possa avvalersi di soggetti specializzati nel
settore, individuati tramite procedure  ad  evidenza  pubblica  o  di
altri soggetti pubblici». L'Agenzia del  demanio  in  questi  termini
viene ad assumere un ruolo determinante, in violazione degli articoli
118, I e II, comma e 119, ultimo comma, della Costituzione,  comma  7
del  nuovo  articolo  33-bis  poi,  modifica  i  commi  l  e  2   del
decreto-legge n. 112 del 2008, cosi' come convertito dalla  legge  n.
133 del 2008, prevedendo per le Regioni che queste «entro  60  giorni
dalla data di entrata in vigore della presente disposizione»  debbano
disciplinare  «l'eventuale  equivalenza   della   deliberazione   del
consiglio comunale di  approvazione  quale  variante  allo  strumento
urbanistico generale,  ai  sensi  dell'articolo  25  della  legge  28
febbraio 1985, n. 47, anche disciplinando le  procedure  semplificate
per  la  relativa  approvazione».  Dispone  inoltre:   «Le   Regioni,
nell'ambito  della  predetta   normativa   approvano   procedure   di
copianificazione  per  l'eventuale  verifica  di   conformita'   agli
strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di  concludere  il
procedimento  entro  il  termine  perentorio  di  90   giorni   dalla
deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il
comma 2 dell'articolo 25 della legge 28  febbraio  1985,  n.  47.  Le
varianti urbanistiche di cui al  presente  comma,  qualora  rientrino
nelle  previsioni  di  cui  al  paragrafo  3  dell'articolo  3  della
direttiva 2001/42/CE  e  al  comma  4  dell'articolo  7  del  decreto
legislativo 3 aprile 2006, n.  152  e  s.m.i.  non  sono  soggette  a
valutazione ambientale strategica». 
    Tale previsione si pone in aperto  contrasto  con  la  competenza
costituzionalmente riconosciuta alla  Regione  nella  misura  in  cui
stabilisce un termine decisamente ridotto per le modifiche  normative
e prevede poi, una volta decorso  tale  termine,  l'applicazione  del
comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47. 
    Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato  inserisce  poi  un
nuovo  articolo  nel  decreto-legge  n.  351  del  2001,  cosi'  come
convertito dalla legge n. 410 del 2001, disciplinando il processo  di
valorizzazione degli immobili pubblici.  Prevede  che  il  Presidente
della Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova
«la sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi  dell'articolo
34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267  nonche'  in  base
alla relativa legge regionale di regolamentazione della volonta'  dei
soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione  di
detti strumenti di  pianificazione,  al  quale  partecipano  tutti  i
soggetti,  anche  in  qualita'  di  mandatari  da  parte  degli  enti
proprietari, che sono interessati all'attuazione  del  programma.  7.
Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo'  essere
attribuita agli enti locali interessati dal  procedimento  una  quota
compresa tra il 5% e il 15% del ricavato della vendita degli immobili
valorizzati  se  di  proprieta'  dello  Stato  da  corrispondersi   a
richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o  in  parte,  anche
come quota parte dei beni oggetto  del  processo  di  valorizzazione.
Qualora tali immobili, ai fini  di  una  loro  valorizzazione,  siano
oggetto  di  concessione  o  locazione  onerosa,  all'Amministrazione
comunale e' riconosciuta  una  somma  non  inferiore  al  50%  e  non
superiore al 100% del  contributo  di  costruzione  dovuto  ai  sensi
dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380  e  delle  relative
leggi  regionali  per  l'esecuzione  delle  opere   necessarie   alla
riqualificazione  e  riconversione,  che  il  concessionario   o   il
locatario corrisponde all'atto  del  rilascio  o  dell'efficacia  del
titolo abilitativo edilizio». 
    Tale  norma,  nella  parte  in  cui  prevede  una  disciplina  di
dettaglio vincolante nella determinazione dei contenuti  dell'accordo
di programma, appare in contrasto con l'autonomia  costituzionalmente
riconosciuta alla Regione. 
    L'articolo 31, comma 1, dispone: «1  .  In  materia  di  esercizi
commerciali,  all'articolo   3,   comma   l,   lettera   d-bis,   del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: "in  via
sperimentale" e dopo le parole  "dell'esercizio"  sono  soppresse  le
seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli  elenchi  regionali  delle
localita' turistiche o citta' d'arte"». 
    Modifica cosi' il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera
d-bis, del decreto-legge  4  luglio  2006,  n.  223,  convertito  con
modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248  (correntemente  noto
come decreto  Bersani).  A  seguito  della  modifica  introdotta,  la
disposizione  al  punto  d-bis)  e'  stata  riformulata  nei  termini
seguenti: «d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di  chiusura,
l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche'  quello  della
mezza giornata di chiusura infrasettimanale». 
    In  questo  modo,  sono  stati  eliminati,  in  via  generale  ed
assoluta, i limiti e le prescrizioni relativi agli orari di  apertura
e  chiusura,  alla  chiusura  domenicale  e  festiva   e   (parziale)
infrasettimanale  degli  esercizi  commerciali,  inclusi  quelli   di
somministrazione di alimenti e bevande. 
    La  disposizione  cosi'  riformulata,  nella  sua  assolutezza  e
inderogabilita', lede la competenza legislativa regionale in  materia
di commercio,  violando  gli  articoli  117,  I  e  IV  comma,  della
Costituzione, nonche' la potesta'  regionale  connessa  all'esercizio
delle funzioni amministrative di cui all'art.  118,  I  e  II  comma,
della Costituzione; appare altresi' incompatibile con il principio di
equiordinazione di cui all'art. 114 della Costituzione medesima. 
    L'articolo 35, I comma, dispone: «I.  L'Autorita'  garante  della
concorrenza e del mercato legittimata ad agire in giudizio contro gli
atti amministrativi generali, i regolamenti  ed  i  provvedimenti  di
qualsiasi amministrazione pubblica che  violino  le  norme  a  tutela
della  concorrenza  e  del  mercato.  2.  L'Autorita'  garante  della
concorrenza  e   del   mercato,   se   ritiene   che   una   pubblica
amministrazione abbia emanato un atto in  violazione  delle  norme  a
tutela della  concorrenza  e  del  mercato,  emette,  entro  sessanta
giorni, un parere motivato, nel quale indica  gli  specifici  profili
delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione  non  si
conforma  nei  sessanta  giorni  successivi  alla  comunicazione  del
parere,  l'Autorita'  puo'  presentare,  tramite  l'Avvocatura  dello
Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni.  3.  Ai  giudizi
instaurati ai sensi del comma l si applica la disciplina  di  cui  al
Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.». 
    In questi termini.  la  norma  viene  a  conferire  all'Autorita'
garante della concorrenza e del mercato  il  potere  di  emettere  un
parere motivato  in  ordine  ad  ogni  provvedimento  proveniente  da
qualsivoglia   pubblica   amministrazione   che   contenga   presunte
violazioni delle  norme  poste  a  tutela  della  concorrenza  e  del
mercato. Contestualmente, la medesima norma attribuisce  alla  stessa
Autorita' la legittimazione attiva ad impugnare, per il tramite della
Avvocatura dello Stato, i provvedimenti interloquiti e  non  adeguati
nei termini imposti. La norma censurata, modificando la legge n.  287
del 1990, configura una surrettizia  introduzione  della  figura  del
Pubblico Ministero nel processo amministrativo, contrastante  con  la
sua  natura  strutturale  di  giurisdizione  soggettiva,  e   inoltre
introduce una nuova surrettizia modalita'  di  controllo  sugli  atti
delle Regioni, che si pone in contrasto con la  legge  costituzionale
n. 3/2001 abrogativa dei controlli sugli atti regionali a  suo  tempo
previsti dall'art. 125 della Costituzione. 
    L'articolo 44-bis dispone: «I. Ai sensi  del  presente  articolo,
per «opera pubblica incompiuta» si intende l'opera che non  e'  stata
completata: 
        a) per mancanza di fondi; 
        b) per cause tecniche; 
        c) per sopravvenute nuove norme tecniche  o  disposizioni  di
legge; 
        d) per il fallimento dell'impresa appaltatrice; 
        e) per il mancato interesse al  completamento  da  parte  del
gestore. 
    2. Si considera in ogni caso opera pubblica  incompiuta  un'opera
non rispondente a tutti i requisiti previsti  dal  capitolato  e  dal
relativo  progetto  esecutivo  e  che  non  risulta  fruibile   dalla
collettivita'. 
    3. Presso il Ministero delle infrastrutture e  dei  trasporti  e'
istituito   l'elenco-anagrafe   nazionale   delle   opere   pubbliche
incompiute. 
    4. L'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e'  articolato  a  livello
regionale  mediante  l'istituzione  di  elenchi-anagrafe  presso  gli
assessorati regionali competenti per le opere pubbliche. 
    5. La  redazione  dell'elenco-anagrafe  di  cui  al  comma  3  e'
eseguita contestualmente alla  redazione  degli  elenchi-anagrafe  su
base regionale, all'interno dei quali le opere  pubbliche  incompiute
sono inserite sulla base  di  determinati  criteri  di  adattabilita'
delle opere stesse ai fini del loro riutilizzo,  nonche'  di  criteri
che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni
singola opera. 
    6. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto, il Ministro delle infrastrutture  e
dei trasporti stabilisce, con proprio regolamento,  le  modalita'  di
redazione dell'elenco-anagrafe, nonche' le  modalita'  di  formazione
della graduatoria e dei criteri in base ai quali le  opere  pubbliche
incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe,  tenendo  conto  dello
stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime  al
completamento. 
    7. Ai fini della fissazione dei criteri di cui  al  comma  5,  si
tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato
e alle regioni». 
    Tale  disposizione  prevede  l'istituzione  presso  il  Ministero
competente, di un elenco-anagrafe  nazionale  delle  opere  pubbliche
incompiute, ma lo articola anche presso  l'Amministrazione  regionale
ai  fini  del  coordinamento  dei  dati.  Lo  fa  tuttavia  con   una
regolamentazione  di  dettaglio  che  appare  lesiva   dell'autonomia
organizzativa regionale, costituzionalmente tutelata. 
 
                               Motivi 
 
1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 5,  per  violazione  degli
articoli 3, 117, III e IV  comma;  118,  I  e  II  comma;  119  della
Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione tra Stato
e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione. 
    La disposizione dell'art. 5 del decreto-legge n. 201/2011,  cosi'
come convertito, con modificazioni, dalla  legge  di  conversione  22
dicembre 2011 n. 214, prevede al primo comma che con un  decreto  del
Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta  del  Ministro  del
lavoro e  delle  politiche  sociali,  di  concerto  con  il  Ministro
dell'economia  e  delle  finanze,  siano  riviste  le  modalita'   di
determinazione ed  i  campi  di  applicazione  dell'indicatore  della
situazione economica equivalente (Isee). 
    Al  riguardo,  va  rilevato   che   la   recente   giurisprudenza
amministrativa (Consiglio di Stato, n. 1607/2011) ha fatto  rientrare
l'Isee  nella  materia  dei  livelli  essenziali  delle  prestazioni,
richiamando la legge n. 328/2000 che all'art. 25  dispone:  «ai  fini
dell'accesso  ai  servizi  disciplinati  dalla  presente  legge,   la
verifica della condizione economica  del  richiedente  e'  effettuata
secondo le disposizioni previste dal  decreto  legislativo  31  marzo
1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio  2000,
n. 130.». 
    Va pero' rilevato  come  la  disciplina  attuale  contenga  anche
previsioni  che  consentono  alle  Regioni  di  integrare  i  criteri
stabiliti (ad esempio, l'art. 3 del d.lgs. n. 130/2000  dispone  che:
«gli enti erogatori, ai quali compete la fissazione dei requisiti per
fruire  di  ciascuna  prestazione,  possono   prevedere,   ai   sensi
dell'articolo 59, comma 52, della legge 27  dicembre  1997,  n.  449,
accanto all'indicatore della situazione economica  equivalente,  come
calcolato ai sensi dell'articolo  2  del  presente  decreto,  criteri
ulteriori di selezione dei beneficiari»). 
    Va anche considerato come la disciplina attuale,  in  particolare
lo stesso decreto legislativo n. 130  del  2000,  nel  modificare  il
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, istitutivo dell'Isee,  sia
stato emanato, sebbene anteriore alla  riforma  del  Titolo  V  della
Costituzione, dopo che era stato acquisito il parere della Conferenza
unificata. 
    Va infatti evidenziato che il criterio  dell'Isee  e'  utilizzato
nella legislazione regionale per  definire  l'accesso  a  prestazioni
come asili nido e  altri  servizi  educativi  per  l'infanzia,  mense
scolastiche,    servizi    socio-sanitari    domiciliari,     servizi
socio-sanitari  diurni,  residenziali,  ecc.  ed  altre   prestazioni
economiche assistenziali. 
    Se da questo punto di vista la  materia  dell'Isee,  in  base  al
diritto vivente, tende ad essere inquadrata nella competenza  statale
sulla  determinazione  dei  livelli  essenziali   delle   prestazioni
concernenti i diritti sociali, va pero' richiamata la sentenza n.  88
del 2003 di codesta ecc.ma Corte, dove si precisa: «L'inserimento nel
secondo comma dell'art. 117 del nuovo Titolo  V  della  Costituzione,
fra  le  materie  di  legislazione  esclusiva  dello   Stato,   della
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono  essere  garantiti  su  tutto  il
territorio  nazionale   attribuisce   al   legislatore   statale   un
fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una  adeguata
uniformita' di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti,
pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale
e locale decisamente  accresciuto.  La  conseguente  forte  incidenza
sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze
legislative ed amministrative delle Regioni e delle Province autonome
impone evidentemente che  queste  scelte,  almeno  nelle  loro  linee
generali, siano operate dallo Stato con  legge,  che  dovra'  inoltre
determinare adeguate procedure e precisi atti formali  per  procedere
alle  specificazioni  ed  articolazioni  ulteriori  che  si   rendano
necessarie nei vari settori». Si specifica  quindi:  «Anche  a  voler
prescindere dal  problema  relativo  alla  ulteriore  utilizzabilita'
dell'art. 118 del d.P.R. n. 309 del 1990 alla luce del nuovo Titolo V
della Costituzione ed in particolare del  terzo  e  del  sesto  comma
dell'art.  117  Cost.,  risulta  evidente  che  la  violazione  dello
specifico procedimento di consultazione della  Conferenza  permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e  le  Province  autonome  di
Trento e di Bolzano e quindi del principio di  leale  collaborazione,
rendono illegittima la compressione dei poteri delle Regioni e  delle
Province autonome (fra le molte, si vedano  le  sentenze  n.  39  del
1984, n. 206 del 1985, n. 116 del 1994)». 
    Nel settore sanitario, ad esempio, per giungere alla  definizione
dei livelli essenziali di  assistenza  il  procedimento  di  adozione
prevede espressamente il coinvolgimento delle Regioni  attraverso  la
previa intesa con il Governo. 
    Il rispetto del principio  di  leale  collaborazione  costituisce
quindi   uno   degli   aspetti   piu'   consolidati    del    cammino
giurisprudenziale sui livelli essenziali delle  prestazioni,  che  ha
sempre valorizzato  la  portata  di  tale  principio,  assumendolo  -
talvolta anche nell'accezione «forte» dell'intesa (ad  esempio  nella
sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 134/2006) - quale uno dei fattori
di legittimazione costituzionale  dell'intervento  statale  che,  pur
fondato su un titolo di  competenza  proprio,  incide  su  ambiti  di
rilevanza legislativa regionale. 
    Non va poi dimenticato che nel caso di specie non sussistono quei
particolari presupposti di necessita', ravvisati nella sentenza n. 10
del 2010, affinche'  il  diritto  costituzionale  all'assistenza  non
resti ineffettivo in un periodo di difficile congiuntura economica e,
di conseguenza, si garantiscano ai suoi titolari,  in  condizioni  di
uniformita' su tutto il territorio nazionale, i «mezzi  adeguati»  ad
un'esistenza dignitosa. 
    Anzi, nel caso qui in esame e' opportuno richiamare piuttosto  la
precisa indicazione  data  da  codesta  ecc.ma  Corte  proprio  nella
sentenza n. 10 del 2010,  quando  ha  specificato:  «che,  una  volta
cessata la situazione congiunturale che ha imposto un  intervento  di
politica sociale esteso alla diretta  erogazione  della  provvidenza,
dagli strumenti di coinvolgimento  delle  regioni  e  delle  province
autonome non si possa prescindere, avendo  cura  cosi'  di  garantire
anche la piena attuazione  del  principio  di  leale  collaborazione,
nell'osservanza  del  riparto   delle   competenze   definito   dalla
Costituzione». 
    Nel  caso  di  specie,  se  si  puo'  ritenere  sussistente   una
situazione di emergenza economica, l'oggetto e' profondamente diverso
da quello relativo alla sentenza n. 10 del 2010, dal momento che  non
si tratta piu' di una norma indirizzata  a  istituire  uno  strumento
diretto di intervento come la carta acquisti a favore  delle  persone
bisognose, la cui  caducazione  avrebbe  esposto  queste  ultime.  Si
tratta bensi' di una disposizione rivolta a rivedere un  criterio  di
carattere strumentale alla definizione dei requisiti di accesso a una
pluralita' di prestazioni che ineriscono  alla  competenza  regionale
anche residuale. 
    Ne consegue che deve ritenersi indebitamente  violato,  nel  caso
dell'art.  5  del  decreto   impugnato,   il   principio   di   leale
collaborazione di cui all'art. 120 Cost. non essendo  stata  prevista
la previa intesa con le Regioni,  con  conseguente  ulteriore  vulnus
agli articoli 118, I e II comma (difettando anche i presupposti della
chiamata in sussidiarieta') e 119 della Costituzione, dal momento che
non si' considera come le Regioni abbiano assunto, volontariamente  o
perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto come parametro per le
loro politiche sociali e socio sanitarie. 
    La  suddetta  incostituzionalita',  in  relazione   ai   medesimi
parametri,  si  estende  anche  a  quella  parte  dell'art.   5   del
decreto-legge impugnato dove si prevede che i risparmi a favore dello
Stato e degli enti nazionali di assistenza e di previdenza  derivanti
dalla attuazione delle nuove norme siano, secondo i criteri stabiliti
da un decreto ministeriale e senza intesa con le Regioni, riassegnati
al Ministero del lavoro,  dal  momento  che  la  disposizione  -  pur
riferendosi a risparmi «statali» - non sembra considerare minimamente
la stretta interconnessione che  comunque  esiste  con  le  politiche
regionali in materia sociale e socio assistenziale. La  rimodulazione
delle risorse che lo Stato impegna nel territorio regionale determina
infatti una ricaduta sulle politiche sociali  e  socio  assistenziali
delle Regioni,  che  dovrebbero  quindi  essere  comunque  coinvolte,
tramite intesa. anche nel  processo  di  riallocazione  dei  risparmi
ottenuti. 
    A  questi  si  aggiunge  un   ulteriore   distinto   profilo   di
illegittimita' costituzionale. L'art.  5,  infatti,  concretizza  una
delegificazione  «spuria»  della  materia  contenuta  nella   attuale
disciplina legislativa dell'Isee. Non solo la norma dell'art.  5  non
stabilisce, tra i principi generali, la possibilita' per le  Regioni,
come e' nella disciplina attuale, di integrare i criteri, ma attua un
sostanziale  procedimento  di  delegificazione  al  di  fuori   della
previsione dell'art. 17,  comma  2,  della  legge  n.  400  del  1988
(ritenuto dalla dottrina quasi unanime come rispettoso del  principio
di legalita', nella misura in cui e' alla  legge  di  delegificazione
che deve essere imputato l'effetto abrogativo, mentre il  regolamento
determina semplicemente il termine iniziale di  questa  abrogazione);
senza nemmeno  indicare,  inoltre,  le  disposizioni  legislative  da
abrogare, e con un atto che non viene qualificato come regolamentare. 
    Di  fatto,  nella  struttura  dell'art.   5   si   realizza   una
delegificazione spuria della normativa primaria oggi  in  vigore.  Va
ricordato al riguardo che codesta ecc. ma Corte nella sentenza n. 301
del 2003 ha gia' dichiarato l'incostituzionalita' di una disposizione
legislativa che autorizzava  una  delegificazione  in  favore  di  un
regolamento ministeriale, non solo per la mancata  indicazione  delle
«norme generali regolatrici della materia», ma anche  in  riferimento
all'individuazione della fonte autorizzata. 
    Oltre che per violazione del principio di leale collaborazione, a
causa della mancata previsione  dell'intesa,  l'art.  5  del  decreto
impugnato  incorre  quindi  in  un  vizio  di   eccesso   di   potere
legislativo/irragionevolezza,  censurabile  dalla  Regione  ai  sensi
dell'art.  3  della  Costituzione  dal  momento  che   realizza   una
surrettizia violazione dell'art. 117, III e IV comma, in forza  della
incisione  che  questo  processo  di  delegificazione   opera   sulle
competenze regionali concorrenti e residuali. 
2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da  14  a  20,
per violazione: quanto al comma 14,  degli  articoli  118,  I  e  II,
comma, della Costituzione; quanto al comma 15, degli articoli 3, 5  e
114 della Costituzione; quanto al comma 16, degli articoli 1, 5, 114,
138 della Costituzione; quanto al comma 17, degli articoli 3, 5 e 114
della Costituzione; quanto al comma 18, degli articoli 118,  I  e  II
comma e 120 della Costituzione; quanto al comma 19, dell'articolo 119
della Costituzione; quanto al comma 20, degli articoli 1, 3, 5 e  114
della Costituzione. 
    L'art. 23 del decreto-legge n. 201/2011, cosi'  come  convertito,
con modificazioni, dalla legge di conversione  22  dicembre  2011  n.
214, con le disposizioni poste ai commi  da  14  a  20  trasforma  la
Provincia, da ente politico rappresentativo della popolazione inclusa
nell'ambito territoriale di riferimento, ad ente  di  secondo  grado,
con un Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti
eletti dai Consigli comunali e con un Presidente eletto dal Consiglio
provinciale tra i suoi componenti. La Provincia viene  poi  spogliata
di ogni funzione amministrativa di tipo  gestionale,  potendo  essere
titolare solo di una micro funzione di  coordinamento  dell'attivita'
dei Comuni. 
    Infine, viene sostanzialmente svuotata  della  propria  autonomia
finanziaria, potendo disporre solo delle risorse relative al supporto
di segreteria dei propri organi. 
    La Provincia  perde  cosi'  la  propria  autonomia  politica,  la
propria autonomia amministrativa e la propria autonomia  finanziaria.
Il contrasto sostanziale con il  disegno  costituzionale  -  come  si
vedra' analiticamente di seguito - e' macroscopico. 
    In questo modo, viene menomata  la  stessa  autonomia  regionale,
privata  dalla  norma  statale  di  un  interlocutore   istituzionale
direttamente  rappresentativo  della  popolazione,  con  una  propria
autonomia  e  responsabilita'  finanziaria,  cui  poter  affidare  la
gestione di funzioni amministrative, specialmente in Regioni come  il
Veneto dove il  tessuto  territoriale  e'  costituito  da  Comuni  di
piccole o piccolissime dimensioni (ad esempio, in Veneto il  54%  dei
Comuni e' sotto i 5.000 abitanti). 
    In questi termini, e soprattutto in queste situazioni,  la  norma
statale  tende  a   favorire   la   concentrazione   delle   funzioni
amministrative attive nella Regione - e quindi induce un  centralismo
regionale - senza piu' permettere alla Regione stessa  di  sviluppare
un regionalismo pienamente attuativo del principio di sussidiarieta'.
Si viene cosi' a menomare la stessa  autonomia  statutaria  (gia'  lo
Statuto del Veneto del 1971 prevedeva che le funzioni  amministrative
fossero normalmente esercitate delegandole non  solo  ai  Comuni,  ma
anche alle Province), che ben potrebbe configurare  la  Regione  come
organo piu' di legislazione e di  indirizzo  che  di  amministrazione
diretta. 
    Non si mette in discussione, in questa  sede,  l'opportunita'  di
una seria razionalizzazione dell'attuale  assetto  istituzionale  del
sistema delle autonomie locali, in particolare delle Province, ma  si
ritiene che quel processo meriti di essere progettato insieme con gli
Enti territoriali ed attuato  con  appropriati  strumenti  giuridici,
cosi che risulti veramente funzionale a realizzare un piu' efficiente
modello organizzativo e una migliore allocazione delle  risorse,  con
effettiva riduzione dei costi, anche politici. Si rileva  e  lamenta,
al contrario, la inidoneita' delle  disposizioni  censurate  -  nella
loro  forza  giuridica  e  nei  loro   contenuti   -   a   realizzare
effettivamente l'obiettivo dichiarato. 
    Esse,  alterando  il  quadro   costituzionale,   senza   cogliere
l'obiettivo dell'auspicata semplificazione del sistema istituzionale,
ne determinano anzi una complessiva complicazione. Non  ottengono  in
realta' neppure il risultato di una riduzione della spesa e dei costi
degli apparati (cui fa riferimento il  titolo  dell'articolo  in  cui
sono inserite le disposizioni impugnate):  e'  significativo  che  la
relazione tecnica  -  estremamente  sintetica  -  che  accompagna  il
provvedimento non abbia potuto quantificare la  misura  dei  risparmi
complessivamente perseguibili alla fine di un  processo  di  riordino
configurato in  questi  termini.  Le  norme  che  si  censurano  sono
destinate invece a produrre indebiti  costi  aggiuntivi  diretti  (si
pensi all'inquadramento  del  personale,  che  verra'  trasferito  al
livello  regionale)  e  indiretti  (si  pensi   alla   difficilissima
gestibilita' di tutte quelle situazioni dove, a  fronte  di  Province
che hanno una dimensione territoriale ben piu'  ampia  di  quella  di
alcune Regioni, contesto territoriale di riferimento e' costituto  da
una  pluralita'  di  Comuni  «polvere»  di  piccole  o   piccolissime
dimensioni). 
    Mediante una legge ordinaria, quindi, si pretende di compiere una
vera e propria revisione costituzionale, incidendo  radicalmente  sul
complessivo impianto costituzionale e su specifiche  disposizioni,  e
di  qui  anche  sull'autonomia  costituzionalmente   garantita   alla
Regione. 
    La Regione del Veneto e' dunque legittimata a tutelare davanti  a
codesta ecc.ma Corte le proprie prerogative costituzionali, che  sono
lese  anche  direttamente  e   nell'attualita'   dalle   disposizioni
legislative statali censurate. Per di piu', codesta ecc.ma  Corte  in
piu' occasioni (sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005, n. 196  del
2004 e n. 533 del 2002) ha ritenuto che le Regioni siano  legittimate
a denunciare la legge statale anche per la violazione  di  competenze
degli enti locali, perche'  «la  stretta  connessione  [...]  tra  le
attribuzioni regionali e quelle delle autonomie  locali  consente  di
ritenere che la lesione delle competenze  locali  sia  potenzialmente
idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali». 
    Ad  integrazione   di   queste   considerazioni   d'insieme   sul
complessivo impianto  dei  commi  censurati,  si  passa  ora  ad  una
illustrazione analitica dei singoli profili  di  incostituzionalita',
comma per comma. 
    Si seguira' nell'esposizione  un  ordine  espositivo  diverso  da
quello numerico, per prendere  in  considerazione  in  modo  unitario
aspetti tra loro logicamente connessi. 
    2.1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 16. 
    La disposizione dell'art. 23, comma 16, prevede il venir  meno  -
per volonta' di una fonte primaria  e  percio'  senza  utilizzare  il
procedimento di revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost.  -
della  Provincia  come  ente  esponenziale  rappresentativo  di   una
comunita' territoriale che  si  organizza  democraticamente,  secondo
l'art. l Cost., con organi elettivi di diretta emanazione  del  corpo
elettorale. 
    E' evidente che le Province sono state previste - riconosciute  -
dalla Costituzione come enti di governo locale elettivi e che  questa
scelta e' stata confermata e soprattutto rafforzata dalla riforma del
Titolo V, che le ha  configurate  quali  «enti  autonomi  con  propri
statuti,  poteri  e  funzioni  secondo  i  principi   fissati   dalla
Costituzione» (art. 114, II comma,  Cost.),  destinate  a  costituire
proprio in tale veste - assieme ai Comuni, alle Citta'  metropolitane
e alle Regioni - la Repubblica (art. 114, I Comma). 
    Lo  stesso  principio  autonomista  di  cui  all'art.   5   della
Costituzione, prevedendo  che  «la  Repubblica,  una  e  indivisibile
riconosce e promuove le autonomie locali», impedisce  al  legislatore
ordinario di incidere in via definitiva  sul  carattere  direttamente
democratico dell'ente, che rappresenta uno dei  requisiti  essenziali
dell'ordinamento repubblicano. Il principio  autonomista  implica  il
principio democratico: e' quest'ultimo che  richiede  che  il  popolo
abbia una rappresentanza che emerga da  elezioni  generali,  dirette,
libere,  uguali  e  segrete  e  che  la  rappresentanza   abbia   una
consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo, 
    l'espressione del pluralismo  politico,  compatibilmente  con  la
governabilita';  in  secondo  luogo,  la  capacita'  di  indirizzo  e
controllo da parte della rappresentanza medesima sull'ente. 
    E' utile al riguardo rimarcare che  codesta  ecc.ma  Corte  nella
sentenza n. 165/2002 ha precisato: «si deve  in  proposito  osservare
che   il   legame    Parlamento-sovranita'    popolare    costituisce
inconfutabilmente       un        portato        dei        principi'
democratico-rappresentativi,  ma  non  descrive  i  termini  di   una
relazione di identita', sicche' la tesi  per  la  quale,  secondo  la
nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza,  la
sovranita' popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a
plasmarne  l'essenza,   non   puo'   essere   condivisa   nella   sua
assolutezza». E ancora: «Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale
attorno al quale esse [le idee  sulla  democrazia,  sulla  sovranita'
popolare e sul principio autonomistico] ruotavano abbia trovato  oggi
una  positiva  eco  nella  formulazione  del  nuovo  art.  114  della
Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati
al fianco dello Stato  come  elementi  costitutivi  della  Repubblica
quasi  a  svelarne,  in  una  formulazione   sintetica,   la   comune
derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare». 
    Ne'  sembra  possibile  sostenere   che   la   rappresentativita'
indiretta configurata dalla disposizione impugnata risponda, nel caso
delle Province, alla stessa caratura  democratica  derivante  da  una
elezione popolare. Si  tratterebbe  di  un  argomento  non  privo  di
rilevanti conseguenze,  dal  momento  che  tutti  gli  enti  elencati
dall'art. 5, Cost. sono posti dalla Costituzione sullo stesso  piano,
quanto  a  garanzie  di  autonomia  politica.   Ad   ammetterlo,   ne
deriverebbe  infatti  la  legittimita'  di  una  legge  statale   che
stabilisse come principio fondamentale, ai sensi dell'art. 122 Cost.,
anche per i Consigli regionali  un  meccanismo  del  tipo  di  quello
previsto  dalla  disposizione  impugnata.  O  che  prevedesse  che  i
Consigli  comunali  siano  composti  da  eletti  tra  i  consigli  di
quartiere, ad esempio. 
    La disposizione del comma 16 dell'art. 23 del  decreto  impugnato
viola pertanto gli articoli 1, 5, 114, 138 della Costituzione. 
    E' opportuno precisare che questi profili di  incostituzionalita'
hanno una ricaduta  diretta  sulla  sfera  di  competenza  regionale.
Quello delle autonomie territoriali configurato dalla Costituzione e'
un vero e proprio  sistema  (si'  veda  in  questi  termini  gia'  la
sentenza  n.  343  del  1991  di  codesta  ecc.ma  Corte),  per   cui
l'alterazione della struttura essenziale  e  costitutiva  di  uno  di
questi enti si riflette inevitabilmente sugli altri,  menomandone  la
sfera di competenza. Nel  caso  di  specie  la  Regione  risulta,  ad
esempio,  menomata  nell'esercizio  del  proprio  potere  di  attuare
pienamente   i   principi   di    sussidiarieta',    adeguatezza    e
differenziazione  nell'allocare  le  funzioni  amministrative   nelle
materie di propria competenza, ai sensi degli articoli 118,  I  e  II
comma, della Costituzione. Assume, infatti,  un  rilievo  politico  e
istituzionale   profondamente   diverso    allocare    le    funzioni
amministrative all'ente Provincia cosi' come configurato dal  disegno
costituzionale prima ricordato, piuttosto che  allocarle  a  un  ente
privo di rappresentativita' diretta delle popolazioni interessate. Ad
esempio, in materia  urbanistica,  la  Regione  Veneto  ha  assegnato
(legge  regionale  n.  11  del  2004)  alle  Province  competenza   a
provvedere  alla  pianificazione  territoriale  per  il  governo  del
territorio (artt. 22-24), nonche' la competenza ad approvare i  piani
comunali di assetto del territorio (artt. 14 e 15). Tali assegnazioni
di competenze si fondano sulla struttura direttamente rappresentativa
della  Provincia  e  sulla   possibilita'   del   diretto   controllo
democratico del cittadino elettore (che viene meno nella disposizione
impugnata). 
    2.2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 20. 
    Per gli organi provinciali che  vanno  al  rinnovo  entro  il  31
dicembre 2012, il comma 20 dell'art. 23 del decreto impugnato dispone
l'applicazione, sino al 31 marzo  2013,  dell'art.  141  del  decreto
legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento  e  sospensione  dei
consigli comunali e provinciali». 
    La tecnica  normativa  utilizzata  appare  irragionevole  laddove
disciplina il destino degli  organi  provinciali  che  devono  essere
rinnovati entro  il  31  dicembre  2012:  senza  nemmeno  un'apposita
disciplina, si rinvia  all'art.  141  del  T.u.e.l.  che  regolamenta
ipotesi del tutto diverse da quella in  oggetto.  Tale  disposizione,
infatti, attiene a ben  precise  cause  che  riguardano  la  dinamica
patologica che puo' verificarsi  in  un  ente  territoriale  dove  un
Consiglio  Provinciale  compia,  ad  esempio,  atti   contrari   alla
Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge o  quando  non
sia approvato nei termini il bilancio.  In  questi  casi  i  consigli
provinciali vengono sciolti con  d.P.R.,  su  proposta  del  Ministro
dell'interno e con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina
di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli  con  il
decreto stesso. E'  evidente  nella  ratio  della  disciplina  che  a
giustificare il commissariamento e' la dinamica patologica che si  e'
verificata nell'ente, con la  sospensione  del  potere  dei  soggetti
democraticamente eletti. Nulla a che fare quindi  con  un'ipotesi  di
scioglimento imputabile alla mera volonta'  legislativa  di  riordino
dell'ente Provincia. E in  questi  termini  si  evidenzia  quindi  un
sintomo di irragionevolezza della disciplina. 
    La disposizione del comma 20 si pone quindi in contrasto l'art. 3
Cost.  in  termini  di   ragionevolezza,   in   quanto   prevede   il
commissariamento delle Province che dovrebbero  andare  al  voto  nel
2012 rinviando a una norma pensata per altre ipotesi di  scioglimento
dei consigli e non applicabile in questo caso; inoltre, prevedendo il
commissariamento delle Province che dovrebbero  andare  al  voto  nel
2012, in vista della eliminazione dell'elezione diretta popolare,  si
pone anch'essa  in  violazione  degli  articoli  l,  5  e  114  della
Costituzione. 
    L'eliminazione dell'elezione diretta popolare e'  prevista,  alla
scadenza naturale, anche  per  quegli  organi  provinciali  che  sono
soggetti a rinnovo dopo il 31 dicembre 2012. La seconda  e  la  terza
proposizione del medesimo comma 20 rinviano infatti ai commi 16 e  17
per la elezione dei nuovi organi provinciali. Anche per questa  parte
si ravvisa percio'  violazione  degli  articoli  1,  5  e  114  della
Costituzione. 
    Quanto alla  legittimazione  delle  Regioni  ad  impugnare,  essa
deriva da una menomazione delle competenze regionali per  gli  stessi
motivi indicati in relazione al comma 16 nel punto precedente (2.1). 
    2.3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 15. 
    Il comma 15 dell'art. 23 - apparentemente ammissibile, in  quanto
l'ordinamento  degli  enti  locali  rientra  nelle   competenze   del
legislatore statale previste dall'art. 117, comma 2, lettera p) -  in
realta' menoma la capacita' di azione e di esecuzione delle  Province
ed e' palesemente in  contrasto  con  l'assetto  storico  degli  enti
locali territoriali che hanno avuto nella Giunta l'organo  collegiale
di esecuzione delle deliberazioni  consiliari.  Ne'  la  disposizione
lascia intendere attraverso quali meccanismi lo stesso Presidente  di
un ente, che rimane comunque titolare  di  funzioni  di  area  vasta,
possa operare. Per di piu', configura una  irragionevole  alterazione
del sistema  ordinamentale  organicamente  disegnato  dal  d.lgs.  n.
267/2000, Testo unico degli enti locali,  presidiato  dalla  clausola
(art. l, comma IV)  di  inderogabilita'  «se  non  mediante  espressa
modificazione delle sue disposizioni». 
    La disposizione al comma 15 viola pertanto l'art.  3  Cost.,  per
irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e 114 della Costituzione. 
    Anche in questo caso il profilo di incostituzionalita' ha, per  i
motivi esplicitati nei punti precedenti, una ricaduta  diretta  sulla
sfera di competenza regionale, che ne risulta menomata. 
    2.4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 17. 
    Il comma 17 dell'art. 23 del  decreto  impugnato,  apparentemente
riconducibile alle competenze della legislazione  statale,  viola  in
realta' gli stessi articoli  indicati  nel  punto  precedente  (art.3
della Costituzione, per irragionevolezza, nonche' gli  articoli  5  e
114 della Costituzione) per illegittimita'  costituzionale  derivata,
per le modalita' con  cui  e'  costituito  il  Consiglio  provinciale
chiamato a effettuare l'elezione. Anche in questo caso il profilo  di
incostituzionalita'  ha,  per  i   motivi   esplicitati   nei   punti
precedenti, una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale,
che risulta menomata. 
    2.5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 14. 
    l profili di incostituzionalita' diventano ancora  piu'  evidenti
nella previsione del comma 14 dell'art.  23  del  decreto  impugnato,
dove si stabilisce che «Spettano  alla  Provincia  esclusivamente  le
funzioni di indirizzo e  coordinamento  delle  attivita'  dei  Comuni
nelle materie e nei limiti indicati con legge  statale  e  regionale,
secondo  le  rispettive  competenze».  Tale  disposizione,  oltre   a
comportare un'ingiustificata e inammissibile  sovraordinazione  delle
Province rispetto ai Comuni, si pone in contrasto con  le  previsioni
costituzionali  che  riconoscono  le  Province   come   titolari   di
un'importante dimensione di funzioni amministrative  (fondamentali  e
proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale).  In
base ad esse, le Province gestiscono oggi funzioni amministrative  di
carattere  materiale  che  intervengono  in  ambiti  di   particolare
significato. Una prima e provvisoria  individuazione  delle  funzioni
fondamentali, sebbene ai soli fini dell'attuazione della  delega,  e'
peraltro avvenuta per effetto dell'art. 21, comma 4, della  legge  n.
42 del 2009 (istruzione  pubblica;  trasporti  locali;  gestione  del
territorio;  tutela  ambientale;  sviluppo  economico;  mercato   del
lavoro). 
    Soprattutto, la  disposizione  del  comma  14  dell'art.  23  del
decreto impugnato menoma indebitamente la competenza legislativa e in
genere la sfera di autonomia della  Regione  che,  nelle  materie  di
propria competenza, si vede preclusa la possibilita' di trasferire  o
delegare qualsiasi funzione alle Province,  nonostante  la  specifica
caratterizzazione del  proprio  territorio  e  dei  relativi  assetti
istituzionali. Ad esempio, risulta preclusa all'autonomia legislativa
regionale la possibilita' di una scelta come quella effettuata  nella
legge regionale n. 11 del 2001 (Conferimento di  funzioni  e  compiti
amministrativi  alle  autonomie  locali  in  attuazione  del  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n_ 112), all'art.  5,  di  assegnare  alle
Province, oltre che funzioni di  coordinamento,  anche  «funzioni  di
tipo gestionale in riferimento agli interessi relativi a  vaste  zone
intercomunali o all'intero  territorio  provinciale».  Per  converso,
potrebbe desumersi dalla disposizione del  comma  14  addirittura  un
obbligo di assegnazione esclusiva alle Province delle competenze  ivi
indicate, con un'ulteriore compressione dell'autonomia regionale. 
    In tal modo, la Regione non puo' piu', come invece stabiliscono i
primi due commi dell'art.118 della Costituzione, configurarsi come il
soggetto titolare del potere di  declinare  con  propria  legge  -  e
quindi con una propria autonoma decisione in relazione alle  precipue
caratteristiche del proprio ambito territoriale -  nelle  materie  di
propria competenza, in modo pieno,  i'  principi  di  sussidiarieta',
adeguatezza   e   differenziazione   in   relazione   alle   funzioni
amministrative. 
    La disposizione al comma 14 e' percio' in  palese  contrasto  con
l'art. 118, I e II comma, Cost. 
    2.6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 18. 
    La previsione del comma 18 dell'art.  23  del  decreto  impugnato
rafforza la lesione delle competenze  regionali,  dove  prevede  che:
«Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e  le  Regioni,
con propria legge, secondo le  rispettive  competenze,  provvedono  a
trasferire  ai  Comuni,  entro  il  31  dicembre  2012,  le  funzioni
conferite dalla normativa  vigente  alle  Province,  salvo  che,  per
assicurarne l'esercizio unitario, le  stesse  siano  acquisite  dalle
Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta',  differenziazione
ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento  delle  funzioni  da
parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012,  si  provvede  in  via
sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno  2003,  n.
131, con legge dello Stato». 
    In sostanza, la  disposizione,  ribadendo  in  termini  operativi
quanto previsto dal comma 14, esclude che la Regione possa declinare,
nelle materie di propria competenza, i  principi  di  sussidiarieta',
adeguatezza e differenziazione, al di fuori delle  funzioni  di  mero
coordinamento, a  favore  delle  Province,  trovandosi  indebitamente
limitata nella propria competenza ed autonomia. Cosi', se la  Regione
volesse assumere un ruolo maggiormente incentrato  sullo  svolgimento
delle funzioni legislative e meno  su  quello  della  gestione  delle
funzioni amministrative, in  presenza  di  un  contesto  territoriale
caratterizzato da una prevalenza di Comuni di piccole o  piccolissime
dimensioni, non potrebbe piu' valorizzare  il  ruolo  delle  Province
nello svolgimento delle funzioni  amministrative,  nonostante  reputi
questo conforme ai principio di adeguatezza e di differenziazione. 
    Al fine di  evidenziare  ulteriormente  il  contrasto  di  questa
situazione - che favorisce quindi un forte  centralismo  regionale  -
con  il  disegno  costituzionale,  appare  utile   ricordare   quanto
affermava codesta ecc.ma Corte gia' nella sentenza n. 343  del  1991,
allorche' valorizzava l'intento - di assicurare  un  sempre  maggiore
avvicinamento di queste funzioni alle realta' locali, sia allo  scopo
di evitare  il  formarsi  di  una  burocrazia  a  livello  regionale,
ripetitiva di quella  dell'amministrazione  statale  accentrata  che,
appunto,  con  l'ordinamento  regionale  e  con  la   sua   ulteriore
articolazione a livello locale, la Costituzione tende a superare». 
    Inoltre,  la  disposizione  impugnata  prevede   un   illegittimo
intervento  del  potere  sostitutivo  statale  nei  confronti   della
Regione, dal momento che non e' configurabile un'esigenza di tutelare
l'unita' giuridica o economica (che appaiono gli unici parametri, tra
quelli previsti dall'art. 120 Cost., che potrebbero  essere  riferiti
al  caso  di  specie)  in  relazione  a  una  previsione  palesemente
incostituzionale; lo stesso  rinvio  all'articolo  8  della  legge  5
giugno 2003, n. 131, appare configurato in termini irragionevoli, dal
momento che la procedura indicata  nel  comma  18  dell'art.  23  qui
impugnato e' diversa da quella ben piu'  concertativa  contenuta  nel
suddetto art. 8. 
    Oltretutto, il potere sostitutivo  statale  consisterebbe,  nella
specie, nel potere  del  Governo  di  intervenire,  ove  non  fossero
emanate le leggi regionali imposte dalla prima parte  del  comma  18,
sostituendosi  al  consiglio  regionale   nella   sua   funzione   di
legislatore, perfino nelle materie di competenza regionale esclusiva. 
    La disposizione si pone pertanto in contrasto  con  gli  articoli
118, I e II comma, e 120 della Costituzione. 
    2.7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 19. 
    Il comma 19  del  decreto  impugnato  dispone:  «Lo  Stato  e  le
Regioni, secondo le rispettive  competenze,  provvedono  altresi'  al
trasferimento delle risorse  umane,  finanziarie  e  strumentali  per
l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito  delle
medesime  risorse  il   necessario   supporto   di   segreteria   per
l'operativita' degli organi della provincia». 
    La disposizione e' di fatto collegata  al  precedente  comma  18,
disciplinando  la  riallocazione  delle  risorse   conseguente   allo
svuotamento delle funzioni, e riflette percio'  in  via  derivata  la
ritenuta illegittimita' costituzionale del comma 18. 
    Inoltre, essa - costruita riproponendo la tecnica normativa a suo
tempo utilizzata riguardo al cd. decentramento amministrativo operato
con il d.lgs. n. 112 del 1998 e quindi anteriormente all'attuale art.
119 Cost.  -  si  pone  in  palese  violazione  dell'art.  119  della
Costituzione, dove invece si prevede che le Province, cosi' come  gli
altri Enti territoriali, abbiano «autonomia finanziaria di entrata  e
di spesa»; nonche' che  dispongano  di  «risorse  autonome»,  potendo
stabilire e applicare «tributi e entrate proprie in  armonia  con  la
Costituzione e con i principi di coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario»; che dispongano  di  «compartecipazioni  al
gettito di tributi  erariali  riferibile  al  loro  territorio»;  che
esista un «fondo perequativo»; che tali fonti tributarie  «consentano
di finanziare integralmente le funzioni pubbliche  loro  attribuite»;
che solo per rimuovere particolari squilibri o per «scopi diversi dal
normale esercizio delle loro funzioni» lo Stato possa ritornare a una
finanza di trasferimento. 
    Ogni riferimento  all'autonomia  finanziaria  delle  Province  e'
infatti scomparsa dal comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato. 
    Questo dato va preso in considerazione anche  in  relazione  alla
normativa vigente, recentemente riordinata dal decreto legislativo n.
68 del 2011 (relativo alla  autonomia  finanziaria  delle  Regioni  e
delle Province): l'autonomia finanziaria  delle  Province  si  fonda,
infatti,  su  compartecipazioni   a   tributi   erariali   (come   la
compartecipazione all'irpef), su tributi propri derivati (ad  esempio
l'imposta sulle assicurazioni  contro  la  responsabilita'  civile  e
l'imposta provinciale di  trascrizione),  su  una  imposta  di  scopo
provinciale, e solo in parte residuale  su  trasferimenti  statali  o
regionali, anch'essi peraltro destinati ad  essere  sostituiti  -  in
base alle  disposizioni  del  d.lgs.  n.  68/2011  -,  entro  precisi
termini, con compartecipazioni a tributi  erariali  o  regionali,  in
modo da superare i difetti e i problemi della cd.  finanza  derivata,
che   ha   prodotto   nel    nostro    sistema    evidenti    effetti
deresponsabilizzanti. 
    Tutto questo quadro, attuativo dell'art. 119 della  Costituzione,
e' ignorato dalla disposizione impugnata. 
    D'altra  parte,   l'esiguita'   delle   funzioni   amministrative
assegnate  alle  Province  (mero  coordinamento,  senza  piu'  alcuna
attivita'  gestionale)  e  l'entita'   delle   risorse   riconosciute
(funzionali solo a garantire il necessario supporto di segreteria per
l'operativita'   degli   organi   della   provincia)   si    dimostra
difficilmente compatibile con il quadro finanziario  disegnato  dalla
Costituzione, a ulteriore riprova di una sostanziale incompatibilita'
del disegno dell'art. 23 del decreto impugnato (commi da 14 a 20) con
quello costituzionale. 
    Non risulta neppure chiaro come il comma 19 del decreto impugnato
- e cio' appare anche un  chiaro  sintomo  di  irragionevolezza  -  a
fronte del fortissimo ridimensionamento delle  funzioni  provinciali,
possa gestire il passaggio sul piano del finanziamento,  dal  momento
che si tratta di passare da  un  finanziamento  che  supera  i  dieci
miliardi di euro (derivante dalle funzioni di amministrazione attiva,
come ad esempio quelle attinenti alle strade) a quello molto ben piu'
limitato  di  mere  «funzioni   di   supporto   di   segreteria   per
l'operativita' degli organi provinciali». 
    Da questo punto di  vista,  per  quanto  riguarda  le  competenze
statali, il riferimento al mero «trasferimento delle risorse»  sembra
preludere - ma sara' chiaro, anche se i margini  per  una  differente
opzione non paiono  sussistere,  quando  verra'  approvata  la  legge
statale di trasferimento delle funzioni (di competenza statale)  alle
Regioni o ai Comuni - a un incremento della finanza derivata e  a  un
superamento dell'attuale sistema di finanza autonoma. 
    In ogni caso, quello  che  qui  maggiormente  rileva  e'  che  la
disposizione, in relazione alla finanza regionale,  e'  configurabile
come un principio statale di coordinamento della finanza pubblica.  E
in questa veste impone, da subito, alle leggi regionali di riallocare
funzioni con la costituzione di un sistema di finanza  derivata,  sia
con riguardo alle funzioni residuali delle Province, sia con riguardo
a quelle allocate ai Comuni,  senza  nessun  rispetto  dell'autonomia
finanziaria regionale riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione. 
    Si' impone alla Regione, in  questi  termini,  il  ritorno  a  un
sistema di finanza di trasferimento, meramente derivata,  piu'  volte
censurato da codesta ecc. ma Corte (cfr. gia'  sentenza  n.  370  del
2003, dove si precisa «la permanenza o addirittura la istituzione  di
forme  di  finanziamento  delle   Regioni   o   degli   enti   locali
contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi  di
cattiva funzionalita'  o  addirittura  di  blocco  di  interi  ambiti
settoriali», ma anche le piu' recenti  sulla  autonomia  finanziaria:
dalle n. 16 e n. 37 del 2004 alla n. 102 del 2008).  La  ricaduta  in
termini di lesione delle competenze regionali e' evidente,  non  solo
perche' menoma e trasfigura il potere  di  assegnazione  in  base  al
principio  di  sussidiarieta'  (un  conto   e'   assegnare   funzioni
amministrative a un ente dotato di autonomia finanziaria, un altro e'
assegnarle ad un ente che, in  violazione  dell'art.  119  Cost.,  e'
stato riportato a un sistema di finanza di trasferimento),  ma  anche
perche' la  disposizione  obbliga  la  Regione  a  piegarsi,  per  il
finanziamento delle funzioni amministrative (sia per quelle che  puo'
conservare in capo alle Province sia per quelle  che  trasferisce  ai
Comuni) a questa  logica  totalmente  contraddittoria  dell'art.  119
della Costituzione e della sua attuazione attraverso la  riforma  del
federalismo fiscale con legge n.  42  del  2009  e  relativi  decreti
legislativi, in particolare d.lgs. n. 68 del 2011. 
    E' evidente, peraltro, che il ritorno a un sistema di finanza  di
trasferimento,  cioe'  totalmente  deresponsabilizzante   sul   piano
fiscale (lo Stato e la Regione trasferiscono e la  Provincia  spende)
e' in chiara e netta antitesi con l'obiettivo  di  razionalizzare  la
spesa, come dimostrano tutti i guasti prodotti nel nostro sistema dal
criterio della cd. spesa storica. 
    La disposizione dell'art. 19 si pone quindi in  aperta  e  palese
violazione dell'intero art.  119  della  Costituzione,  menomando  le
competenze attribuite alla Regione, obbligata a istituire un  sistema
di finanza di trasferimento. 
    In sostanza, l'impianto normativo prefigurato dai commi da  14  a
20 dell'art. 23 del decreto impugnato appare sotto questi profili  in
palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a creare
gravissime  difficolta'  applicative,  nonche'   aumenti   di   costi
superiori ai risparmi che potrebbe produrre. Come si e' in precedenza
evidenziato, la revisione o la razionalizzazione  costituzionale  dei
livelli di governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro
ritenersi  opportuna,  ma  deve  essere  attuata  con  una  legge  di
revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione
e  delle  diverse  soluzioni   possibili.   Soluzioni   improvvisate,
tecnicamente e economicamente discutibili,  con  aperti  ed  evidenti
profili di incostituzionalita' possono creare guasti gravi al sistema
in termini di gestibilita' e di costi aggiuntivi. Per questi  motivi,
si ritiene opportuno richiedere l'istanza di  sospensione  di  queste
norme  impugnate,  al  fine  di  evitare  il  verificarsi  di  questa
situazione. 
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 27, per  violazione  degli
articoli 117, 118 e 119 della Costituzione. 
    L'articolo  27  del  decreto-legge  n.   201/2011,   cosi'   come
convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre
2011, n. 214, recante la rubrica «Dismissioni  immobili»,  detta  una
nuova disciplina della valorizzazione,  trasformazione,  gestione  ed
alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che  in  piu'  punti
appare  lesiva  delle   garanzie   costituzionali   dell'   autonomia
regionale. 
    In particolare, il comma 1 inserisce un nuovo  articolo  (33-bis)
nel decreto-legge n.  98/2011,  convertito  con  modificazioni  dalla
legge  15  luglio  2011,  n.  111,  recante  la  rubrica   «Strumenti
sussidiari per la gestione degli immobili pubblici». 
    Nel nuovo art. 33-bis si prevede, al comma 1, che  l'Agenzia  del
demanio promuova «per la valorizzazione, trasformazione, gestione  ed
alienazione del patrimonio immobiliare  pubblico  di  proprieta'  dei
Comuni, Province, Citta' metropolitane, Regioni, Stato e  dagli  Enti
vigilati dagli stessi, nonche' dei diritti  reali  relativi  ai  beni
immobili, anche demaniali» - la costituzione di societa', consorzi  o
fondi immobiliari. Tutto cio', beninteso,  «senza  nuovi  o  maggiori
oneri per la finanza pubblica». Al  comma  2,  poi,  si  prevede  che
«L'avvio della verifica di fattibilita' delle iniziative  di  cui  al
presente articolo e' promosso dall'Agenzia del  demanio...(omissis)».
Al comma 3, poi, si aggiunge che «qualora le  iniziative  di  cui  al
presente articolo prevedano forme societarie, ad esse  partecipano  i
soggetti apportanti e il Ministero dell'economia e  delle  finanze  -
Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi  siano
inclusi beni di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore  e
di struttura tecnica di supporto. L'Agenzia  del  demanio  individua,
attraverso procedure di evidenza  pubblica,  gli  eventuali  soggetti
privati partecipanti.» e, ancora, che  «La  stessa  Agenzia,  per  lo
svolgimento delle  attivita'  relative  all'attuazione  del  presente
articolo, puo'  avvalersi  di  soggetti  specializzati  nel  settore,
individuati  tramite  procedure  ad  evidenza  pubblica  o  di  altri
soggetti pubblici». 
    Con le disposizioni richiamate viene palesemente attribuito  allo
Stato, e per esso all'Agenzia del demanio, e  soltanto  ad  essa,  un
ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione  e
alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di  proprieta'  delle
Regioni e degli altri enti territoriali e enti vigilati dai medesimi:
ruolo che si concretizza sia nella costituzione di societa', consorzi
o fondi immobiliari, sia nella  selezione  degli  eventuali  soggetti
privati partecipanti, sia nella selezione dei soggetti  specializzati
nel settore dei quali avvalersi. 
    Il riferimento normativo anche ai beni demaniali, che sono  stati
trasferiti in larga parte alle Regioni  col  d.lgs.  n.  85/2010  nel
quadro del c.d. federalismo demaniale, palesa ulteriormente  come  le
disposizioni statali censurate tendano a  restituire  allo  Stato  un
ruolo primario  e  condizionante  nella  valorizzazione,  gestione  e
alienazione dei beni immobili pubblici, inclusi quelli delle Regioni. 
    Inoltre, l'espressa previsione che l'Agenzia del demanio promuova
tutto cio' «senza nuovi o maggiori oneri  per  la  finanza  pubblica»
(comma 1), e al contempo  che  la  medesima  Agenzia  partecipi  alle
iniziative societarie anche quando non siano apportati beni  statali,
«in qualita' di soggetto finanziatore», lascia trasparire l'obiettivo
di governare a livello statale il processo  di  valorizzazione  anche
degli immobili pubblici regionali, peraltro con  risorse  finanziarie
messe a disposizione dalle regioni ed eventualmente dagli altri  enti
territoriali. 
    Siffatte disposizioni si pongono pertanto in  contrasto  con  gli
articoli 118 e 119 della Costituzione, ove si prevede che le  Regioni
abbiano un proprio patrimonio e che quindi  possano  gestirne,  nella
loro  autonomia  amministrativa  organizzativa  e   finanziaria,   la
valorizzazione. 
    Il comma 7  del  nuovo  articolo  33-bis  introduce  disposizioni
sostitutive dei commi l e 2 dell'art. 58 del decreto-legge n. 112 del
2008, cosi come convertito dalla legge n. 133 del 2008. 
    L'art. 58 cit. reca la rubrica «Ricognizione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed  altri  enti  locali»  e
disciplina la procedura di dismissione, prevedendo la redazione di un
piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma  1),  con
l'effetto di classificare i beni inclusi nell'elenco come  patrimonio
disponibile, e, ancora, prevede l'assegnazione ai beni in dismissione
delle rispettive destinazioni d'uso urbanistiche con la deliberazione
di approvazione da parte del consiglio comunale (comma 2). 
    E' noto che il dettato originario del comma 2 e' stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo, esclusa la  prima  proposizione,  con
sentenza n. 340 del 2009, per violazione della  potesta'  legislativa
regionale in materia di  governo  del  territorio:  «Ancorche'  nella
ratio dell'art. 58  siano  ravvisabili  anche  profili  attinenti  al
coordinamento della finanza  pubblica,  in  quanto  finalizzato  alle
alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare  degli  enti,
non c'e' dubbio che, con riferimento al comma 2 qui censurato, assuma
carattere prevalente la materia del governo del territorio, anch'essa
rientrante nella competenza ripartita tra  lo  Stato  e  le  Regioni,
avuto riguardo all'effetto di  variante  allo  strumento  urbanistico
generale,  attribuito  alla  delibera  che  approva   il   piano   di
alienazione e valorizzazione. Ai sensi dell'art.  117,  terzo  comma,
ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere
di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il  potere
di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra  normativa  di
principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima
spetta prescrivere  criteri  ed  obiettivi,  essendo  riservata  alla
seconda l'individuazione degli strumenti concreti da  utilizzare  per
raggiungere detti obiettivi» (ex plurimis: sentenze nn. 237 e 200 del
2009). 
    La disposizione che ha sostituito il comma 2 dell'art. 58 incorre
tuttavia nel medesimo vizio di costituzionalita'. 
    Infatti, solo in apparenza si rimette alle Regioni la  disciplina
delle varianti urbanistiche eventualmente  necessarie  per  assegnare
destinazioni d'uso agli immobili pubblici in dismissione. Infatti, si
stabilisce ora che «Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata
in  vigore  della  presente  disposizione,  disciplinano  l'eventuale
equivalenza   della   deliberazione   del   consiglio   comunale   di
approvazione quale variante allo strumento urbanistico  generale,  ai
sensi dell'articolo 25 della legge 28 febbraio  1985,  n.  87,  anche
disciplinando   le   procedure   semplificate   per    la    relativa
applicazione». In questo modo, da un lato si impone alla  Regione  un
termine brevissimo entro il  quale  esercitare  la  propria  potesta'
legislativa  concorrente  in  materia  di  governo  del   territorio,
dall'altro  se  ne  prefigurano  addirittura  i  contenuti  in   modo
dettagliato. Inoltre, la novella prosegue col disporre - allo  stesso
modo gia' stigmatizzato - che «Le Regioni, nell'ambito della predetta
normativa approvano procedure  di  copianificazione  per  l'eventuale
verifica   di   conformita'   agli   strumenti   di    pianificazione
sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine
perentorio di 90 giorni dalla  deliberazione  comunale».  Infine,  la
novella statale disvela la propria finalita': «Trascorsi  i  predetti
60 giorni, si applica il comma 2  dell'articolo  25  della  legge  28
febbraio 1985, n. 47». 
    Essendo  certo  a  priori  che  quel  termine  non  puo'   essere
rispettato, stante la sua brevita' in  rapporto  all'esercizio  della
competenza  legislativa  regionale  secondo  le  vigenti   regole   e
procedure,  la  disposizione  statale  solo  in  apparenza   rispetta
l'autonomia regionale, come richiesto anche dalla sentenza n. 340 del
2009 di codesta Corte: in realta', si impone nuovamente alle  Regioni
una disciplina statale di dettaglio. 
    Per di piu', si tratta di una disciplina inappropriata, in quanto
l'art. 25, comma 2, legge n. 47/1985,  nel  prevedere  l'approvazione
regionale per silenzio  assenso,  dopo  120  giorni,  fa  riferimento
quanto all'oggetto alle «norme di  cui  al  comma  precedente»  e  ai
«provvedimenti  di  cui  al  precedente  comma»  che  «si   intendono
approvati». Ma il  precedente  comma  fa  riferimento  esclusivamente
all'approvazione di strumenti attuativi in  variante  agli  strumenti
generali  (lett.  a),  all'armonizzazione  dei  regolamenti   edilizi
comunali (lett. b) e a procedure semplificate per  l'approvazione  di
varianti   agli   strumenti   urbanistici    generali    «finalizzate
all'adeguamento degli standards  urbanistici  posti  da  disposizioni
statali o regionali» (lett. c): nulla che  si  riferisca  al  diverso
tema delle varianti agli strumenti generali finalizzate ad attribuire
una destinazione d'uso a immobili pubblici in dismissione. 
    Conclusivamente, risulta violata la competenza costituzionalmente
riconosciuta alla Regione in materia di  governo  del  territorio  ai
sensi dell'art.117, III comma, della Costituzione. 
    Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato  inserisce  poi  un
nuovo articolo 3-ter nel decreto-legge n. 351  del  2001,  cosi  come
convertito dalla legge n. 410 del 2001, per disciplinare il «processo
di  valorizzazione  degli  immobili   pubblici».   Si   prevedono   e
disciplinano dei «programmi unitari di  valorizzazione  territoriale»
(commi  1-5)  e  degli  accordi  di  programma   (commi   6-10).   In
particolare, ai commi 6, 7 e 8, si prevede che  il  Presidente  della
Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto,  promuova  «la
sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi  dell'articolo  34
del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonche' in base  alla
relativa legge  regionale  di  regolamentazione  della  volonta'  dei
soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione  di
detti strumenti di  pianificazione,  al  quale  partecipano  tutti  i
soggetti,  anche  in  qualita'  di  mandatari  da  parte  degli  enti
proprietari, che sono interessati all'attuazione  del  programma.  7.
Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo'  essere
attribuita agli enti locali interessati dal  procedimento  una  quota
compresa tra il 5% e il 15% del ricavato della vendita degli immobili
valorizzati  se  di  proprieta'  dello  Stato  da  corrispondersi   a
richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o  in  parte,  anche
come quota parte dei beni oggetto  del  processo  di  valorizzazione.
Qualora tali immobili, ai fini  di  una  loro  valorizzazione,  siano
oggetto  di  concessione  o  locazione  onerosa,  all'Amministrazione
comunale e' riconosciuta  una  somma  non  inferiore  al  50%  e  non
superiore al 100% del  contributo  di  costruzione  dovuto  ai  sensi
dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380  e  delle  relative
leggi  regionali  per  l'esecuzione  delle  opere   necessarie   alla
riqualificazione  e  riconversione,  che  il  concessionario   o   il
locatario corrisponde all'atto  del  rilascio  o  dell'efficacia  del
titolo abilitativo edilizio». In particolare, al comma 8 si fissa  un
termine «perentorio» di 120 giorni per la conclusione dell'accordo di
programma, imponendo altrimenti al Presidente della Giunta  regionale
di attivare e concludere le procedure entro 60 giorni. 
    L'insieme di questa - invero farraginosa - disciplina, che scende
nel dettaglio dei contenuti e delle procedure,  appare  incompatibile
con  l'autonomia  costituzionalmente  riconosciuta  alla  Regione  in
materia di governo del territorio e  di  valorizzazione  del  proprio
patrimonio,  sia  a  livello   legislativo   che   amministrativo   e
finanziario. 
    Si pone anch'essa pertanto in violazione degli articoli 117,  III
comma, 118, I e II comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione. 
    4) Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  31,  comma  1,  per
violazione  degli  articoli  114,  117,  I  e  IV  comma;  118  della
Costituzione. 
    4.1. L'art. 31, comma l, del decreto-legge apporta  una  modifica
al dettato normativo  dell'art.  3,  comma  1,  lettera  d-bis),  del
decreto-legge 4 luglio 2006, n.  223,  convertito  con  modificazioni
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente indicato anche  come
«decreto Bersani»). 
    Il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, del  decreto  Bersani,
cosi come gia' modificato dalla legge 4  agosto  2006,  n.  248,  era
formulato nei termini seguenti: 
        «Regole  di  tutela  della  concorrenza  nel  settore   della
distribuzione commerciale. 
    1. Ai sensi delle disposizioni  dell'ordinamento  comunitario  in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e dei servizi ed al fine di  garantire  la  liberta'  di  concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il  corretto  ed  uniforme
funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'articolo  117,  comma  secondo,  lettere   e)   ed   m),   della
Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di  alimenti
e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: 
        a) l'iscrizione a  registri  abilitanti  ovvero  possesso  di
requisiti  professionali  soggettivi  per  l'esercizio  di  attivita'
commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore  alimentare  e
della somministrazione degli alimenti e delle bevande; 
        b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra  attivita'
commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio; 
        c) le limitazioni quantitative all'assortimento  merceologico
offerto negli esercizi commerciali, fatta salva  la  distinzione  tra
settore alimentare e non alimentare; 
        d)  il  rispetto  di  limiti  riferiti  a  quote  di  mercato
predefinite  o  calcolate  sul  volume  delle   vendite   a   livello
territoriale sub regionale; 
        d-bis), in via  sperimentale,  il  rispetto  degli  orari  di
apertura  e  di  chiusura,  l'obbligo  della  chiusura  domenicale  e
festiva,  nonche'   quello   della   mezza   giornata   di   chiusura
infrasettimanale dell'esercizio  ubicato  nei  comuni  inclusi  negli
elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte; 
        e)  la  fissazione   di   divieti   ad   effettuare   vendite
promozionali,  a  meno  che  non   siano   prescritti   dal   diritto
comunitario; 
        f)  l'ottenimento   di   autorizzazioni   preventive   e   le
limitazioni di ordine temporale o quantitativo  allo  svolgimento  di
vendite  promozionali  di  prodotti,  effettuate  all'interno   degli
esercizi  commerciali  ,  tranne  che  nei   periodi   immediatamente
precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti; 
        f-bis)  il  divieto   o   l'ottenimento   di   autorizzazioni
preventive per il  consumo  immediato  dei  prodotti  di  gastronomia
presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i  locali  e  gli  arredi
dell'azienda   con   l'esclusione   del   servizio    assistito    di
somministrazione    e    con    l'osservanza    delle    prescrizioni
igienico-sanitari. 
    Distribuzione commerciale incompatibili con  le  disposizioni  di
cui al comma 1. 
    4. Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie  disposizioni
legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al
comma 1 entro il 1° gennaio 2007.». 
    A seguito della modifica, la  disposizione  al  punto  d-bis)  e'
stata riformulata nei termini seguenti: 
        «d-bis) il rispetto degli orari di apertura  e  di  chiusura,
l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche'  quello  della
mezza giornata di chiusura infrasettimanale». 
    In questo modo, e' stato eliminato in via  generale  ed  assoluta
ogni possibile  limite  relativamente  agli  orari  e  ai  giorni  di
apertura e chiusura,  sia  per  le  attivita'  commerciali  in  senso
stretto che per  le  attivita'  di  somministrazione  di  alimenti  e
bevande  (che  d'ora  in  avanti  indicheremo   congiuntamente,   per
brevita', come «esercizi commerciali»). 
    Viene  cosi'  abrogata   per   incompatibilita'   la   previgente
disciplina statale degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e  12
del decreto legislativo n. 14/1998 e applicata nella Regione  Veneto,
ove si stabiliva: 
        Art. 11 «Orario di apertura e di chiusura. 
    1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi
di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera determinazione degli
esercenti nel rispetto delle disposizioni del presente articolo e dei
criteri emanati dai comuni,  sentite  le  organizzazioni  locali  dei
consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti,
in esecuzione di quanto disposto dall'art. 36, comma 3, della legge 8
giugno 1990, n. 142. 
    2.  Fatto  salvo  quanto  disposto  al  comma  4,  gli   esercizi
commerciali  di  vendita  al  dettaglio  possono  restare  aperti  al
pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette  alle  ore
ventidue. Nel rispetto di tali limiti  l'esercente  puo'  liberamente
determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio  esercizio
non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere. 
    3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico  l'orario  di
effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante cartelli
o altri mezzi idonei di informazione. 
    4. Gli esercizi di vendita al  dettaglio  osservano  la  chiusura
domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,
sentite le organizzazioni di cui al comma 1,  la  mezza  giornata  di
chiusura infrasettimanale. 
    5. Il comune, sentite  le  organizzazioni  di  cui  al  comma  1,
individua i giorni e le zone del territorio nei quali  gli  esercenti
possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva.  Detti
giorni comprendono comunque quelli  del  mese  di  dicembre,  nonche'
ulteriori otto domeniche o festivita'  nel  corso  degli  altri  mesi
dell'anno.». 
        Art. 12 «Disposizioni speciali. 
    1. Le disposizioni del presente  titolo  non  si  applicano  alle
seguenti tipologie di attivita': le rivendite di generi di monopolio;
gli esercizi di  vendita  interni  ai  campeggi,  ai  villaggi  e  ai
complessi turistici  e  alberghieri,.  gli  esercizi  di  vendita  al
dettaglio situati nelle aree di servizio lungo le  autostrade,  nelle
stazioni ferroviarie, marittime ed aeroportuali;  alle  rivendite  di
giornali;  le  gelaterie  e  gastronomie;   le   rosticcerie   e   le
pasticcerie; gli esercizi specializzati  nella  vendita  di  bevande,
fiori, piante e articoli  da  giardinaggio,  mobili,  libri,  dischi,
nastri magnetici, musicassette, videocassette, opere d'arte,  oggetti
d'antiquariato, stampe, cartoline, articoli da ricordo e  artigianato
locale, nonche' le stazioni  di  servizio  autostradali,  qualora  le
attivita' di vendita previste dal  presente  comma  siano  svolte  in
maniera esclusiva e prevalente, e le sale cinematografiche. 
    2.  Gli  esercizi  del  settore   alimentare   devono   garantire
l'apertura al pubblico in caso di piu' di due festivita' consecutive.
Il sindaco definisce le modalita' per adempiere all'obbligo di cui al
presente comma. 
    3.  I  comuni  possono  autorizzare,  in   base   alle   esigenze
dell'utenza  e  alle  peculiari   caratteristiche   del   territorio,
l'esercizio   dell'attivita'   di   vendita   in   orario    notturno
esclusivamente per un limitato numero di esercizi di vicinato.». 
    La nuova disposizione statale travolge poi la legge regionale del
Veneto 21 settembre 2007, n. 29, recante la Disciplina dell'esercizio
dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte
in cui disciplina gli orari di vendita. 
    L'introduzione di un divieto siffatto sarebbe giustificata,  come
si evince dal comma l dell'art. 3 del decreto Bersani  nel  quale  si
incardina   la   novella,   avuto   riguardo   a   «le   disposizioni
dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e
libera circolazione  delle  merci  e  dei  servizi»  e  al  «fine  di
garantire la liberta'  di  concorrenza  secondo  condizioni  di  pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e
servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo  117,  comma
secondo, lettere e) ed m), della Costituzione». 
    4.2. Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata all'art.
3, comma l, del  decreto  Bersani  non  costituisca  ne'  adeguamento
dell'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea ne' esercizio
di competenza legislativa esclusiva dello Stato  ai  sensi  dell'art.
117, lett. e) ed m), della Costituzione,  in  relazione  alla  tutela
della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali  delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono  essere
garantiti su tutto il territorio nazionale. 
    4.3. Quanto all'ordinamento dell'Unione, non e'  dato  ravvisarvi
alcuna disposizione  incompatibile  con  una  normativa  interna  che
disciplini giorni ed orari di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi
commerciali, alla luce dell'interpretazione data dalla giurisprudenza
della Corte di giustizia. 
    4.3.1.  Con  specifico  riferimento  al   principio   di   libera
circolazione delle merci e al correlato divieto  (art.  34  TFUE)  di
misure equivalenti a restrizioni quantitative (intese secondo la nota
«formula Dassonville»), la giurisprudenza comunitaria ha ben chiarito
che non sono vietate quelle normative nazionali applicabili  a  tutti
gli operatori che svolgono attivita' commerciale nello  Stato  membro
considerato e che investono nella stessa maniera,  in  diritto  e  in
fatto, la commercializzazione  di  prodotti  nazionali  e  quella  di
prodotti importati. 
    Particolarmente significative  in  questo  senso  sono  state  le
sentenze Keck e Mithouard  (24  novembre  1993,  causa  C-267-268/91,
punti 16-17) e Hunermund (15 dicembre  1993,  causa  C-292/92,  punto
21), ove la Corte non ha incluso fra le misure di effetto equivalente
vietate quelle misure che  attengono  alle  modalita'  dell'attivita'
commerciale e non al prodotto, non preordinate alla disciplina  degli
scambi e  non  collegate  in  alcun  modo  con  la  diversita'  delle
legislazioni  nazionali  sul  prodotto,  insuscettibili  percio'   di
rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza,
meno facile  l'accesso  al  mercato  per  i  prodotti  importati.  Il
criterio  del  mutuo  riconoscimento   delle   differenti   normative
nazionali investe infatti le normative sul prodotto e non l'attivita'
di vendita, cosicche'  restano  estranee  al  campo  di  applicazione
dell'art. 34  TFUE  quelle  normative  nazionali  che  non  investono
affatto gli scambi o l'integrazione dei mercati. 
    In particolare, la Corte di giustizia ha  fatto  applicazione  di
questi principi proprio in tema di disciplina nazionale dei giorni ed
orari di apertura degli esercizi commerciali  (sentenze  23  novembre
1989, causa C-145/88, B  &  Q;  28  febbraio  1991,  causa  C-312/89;
Conforama, e causa C-332/89, Marchandise;  16  dicembre  1992,  causa
C-169/91, B & Q; 2 giugno 1994, cause riunite C-69  e  258/93,  Punto
Casa  e  PPV,  punto  12;  22  giugno  1994,  causa   C   401-402/92,
Tankstation, punti 12-14; 20 giugno  1996,  cause  riunite  C-418/93,
C-419/93, C-420/93, C-421/93, C-460/93, C-461/93, C-462/93, C-464/93,
C-9/94, C- 10/94,  C-11/94,  C-14/94,  C-15/94,  C-23/94,  C-24/94  e
C-332/94, Semeraro, punto 28). 
    La Corte di giustizia ha riconosciuto che una normativa nazionale
siffatta «persegue un  obiettivo  legittimo  alla  luce  del  diritto
comunitario»  in  quanto  «le  discipline  nazionali   che   limitano
l'apertura   domenicale   di   esercizi   commerciali   costituiscono
l'espressione di determinate scelte,  rispondenti  alle  peculiarita'
socio-culturali nazionali o regionali» e «spetta  agli  Stati  membri
effettuare queste scelte attenendosi alle  prescrizioni  del  diritto
comunitario» (cfr. in particolare  il  punto  11  della  sentenza  16
dicembre 1992, citato al punto 25 della sentenza 20 giugno 1996). 
    Corrispondentemente, la Corte di cassazione (sentenza 4  novembre
1994, n. 9129, resa  a  sezioni  unite  in  sede  di  regolamento  di
giurisdizione) ha ribadito che la  legislazione  interna,  statale  e
regionale, che vieta l'apertura domenicale degli esercizi di  vendita
al dettaglio non contrasta con il principio comunitario della  libera
circolazione delle merci, in quanto l'obbligo di chiusura non rientra
nel suo campo di applicazione e non provoca discriminazioni,  neppure
dissimulate,   tra    prodotti    nazionali    e    non    nazionali.
Conseguentemente, la  Corte  ha  escluso  di  poter  disapplicare  il
diritto interno a favore del diritto dell'Unione. 
    4.3.2. Anche  con  riferimento  all'altro  principio  comunitario
richiamato dal decreto  Bersani,  quello  di  libera  prestazione  di
Servizi, quand'anche inteso in  senso  ampio  cosi  da  includere  il
diritto di stabilimento, e' da ritenere che le disposizioni del  TFUE
che lo sanciscono (artt. 56 ss., 49 ss. TFUE) e cosi' pure la recente
normativa  europea  di  attuazione  (direttiva  2006/123/CE  del   12
dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno) non  siano  in
alcun modo incompatibili con normative nazionali sui giorni ed  orari
di apertura e chiusura degli esercizi commerciali. 
    Il diritto di stabilimento nei Paesi membri e' riconosciuto  agli
operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto
delle specifiche  normative  nazionali;  infatti,  fra  gli  ostacoli
vietati o da monitorare secondo la direttiva  «Bolkestein»  non  sono
menzionate le regole interne sui giorni ed orari  di  apertura  degli
esercizi commerciali. Cio'  rende  superfluo  osservare  poi  che  la
stessa direttiva «Bolkestein»  ammette  delle  eccezioni  ai  divieti
posti, in presenza di motivi imperativi  di  interesse  generale,  di
talche' perfino nel suo ambito di applicazione permane uno spazio  di
operativita' per il diritto interno, e percio' in Italia anche per la
legislazione regionale. 
    4.3.3. Neppure la disciplina della concorrenza posta dal  diritto
dell'Unione (artt. 101-109 TFUE) appare in alcun  modo  incompatibile
con disposizioni nazionali su  giorni  ed  orari  di  apertura  degli
esercizi commerciali che siano prive  di  effetti  discriminatori  ed
anticoncorrenziali e prive di collegamenti con  comportamenti  propri
delle imprese. Vero e', semmai, il  contrario:  misure  nazionali  di
totale  liberalizzazione  dei  giorni  ed  orari  di  apertura  degli
esercizi  commerciali  potrebbero   finire   proprio   coll'agevolare
comportamenti  anticoncorrenziali,  col  favorire  concentrazioni  di
imprese restrittive della concorrenza e lo  sfruttamento  abusivo  di
posizioni dominanti, a danno del consumatore e  del  suo  diritto  di
fruire di una struttura distributiva articolata, diffusa e  anche  di
prossimita' al tessuto urbano consolidato delle citta'  e  dei  paesi
ove si concentra la  residenza  (cfr.  in  questo  senso  la  recente
giurisprudenza amministrativa: p.es. TAR per il Veneto, sez. III,  28
luglio 2011, n 126; Id., n. 3819 del 2009). 
    Lo stesso Parlamento europeo nella recente risoluzione  5  luglio
2011 (2010/2109(INI) su un commercio al  dettaglio  piu'  efficace  e
piu' equo  ha  sottolineato  «che  le  PMI  costituiscono  l'ossatura
dell'economia europea e rivestono un ruolo unico nella  creazione  di
posti di lavoro, in particolare nelle zone  rurali,  e  nel  favorire
l'innovazione e la crescita nel settore del  commercio  al  dettaglio
nelle comunita' locali in tutta l'UE» (punto  17);  ancora,  che  «la
pianificazione del commercio al  dettaglio  deve  fornire  un  quadro
strutturale che permetta alle imprese  di  competere,  rafforzare  la
liberta' di scelta dei consumatori e consentire l'accesso  a  beni  e
servizi, in particolare nelle regioni meno accessibili o  scarsamente
popolate oppure in caso di mobilita' ridotta dei consumatori»  (punto
16) e ha insistito «sul ruolo sociale, culturale e ambientale  svolto
dai negozi e mercati locali per il rilancio delle zone rurali  e  dei
centri urbani» (punto 16). 
    4.3.4. Sul piano della  prassi  europea,  e'  significativo  che,
secondo una recente analisi di Eurocommerce  (all.  2),  in  tutti  i
Paesi membri dell'Unione giorni ed orari di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali siano regolamentati,  con  fissazione  di  orari
massimi  di  apertura  nei  giorni  feriali,  variabili  secondo   le
condizioni climatiche e gli  usi  locali,  e  non  sia  mai  concessa
assoluta liberta' di apertura, in tutti i giorni dell'anno. 
    E' parimenti significativo che non si  abbia  notizia  di  alcuna
iniziativa da parte  della  Commissione  UE  volta  a  contestare  le
normative nazionali per infrazione al diritto UE. 
    4.4. Passando ora all'ordinamento interno italiano, la disciplina
degli orari e dei  giorni  di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi
commerciali  non  e'   riconducibile   nell'area   della   competenza
legislativa esclusiva  dello  Stato  ai  sensi  dell'art.  117  della
Costituzione: non in  quella  della  tutela  della  concorrenza,  per
considerazioni analoghe a quelle svolte con  riferimento  al  diritto
dell'Unione data la consonanza di principi e di regole, e neppure  in
quella della determinazione dei livelli essenziali delle  prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale,  ai  sensi  dell'art.  117,  comma  2,
lettera m), della Costituzione. 
    La possibilita' per il consumatore di acquistare merci e  servizi
in tutti i giorni festivi o in  orari  notturni  non  sembra  infatti
configurare  un  livello  essenziale  di  prestazioni  di  cui  debba
assolutamente fruire, tanto piu' che, ove cosi' fosse, si  renderebbe
necessario introdurre  semmai  prescrizioni  volte  ad  imporre  agli
operatori economici, quantomeno a  rotazione,  l'apertura  festiva  e
notturna, appunto a tutela dei consumatori;  mentre  la  disposizione
censurata e' chiaramente orientata ad attribuire  una  mera  facolta'
agli operatori economici. L'acquisto di beni o servizi in ogni giorno
ed ogni ora non e' d'altra parte riconducibile fra i diritti civili o
i  diritti  sociali,   nel   significato   attribuito   dalla   Carta
costituzionale a questi  termini,  ne'  dei  consumatori,  ne'  degli
esercenti. 
    Che l'apertura domenicale indiscriminata  non  sia  configurabile
come diritto soggettivo degli esercenti e' stato sancito anche  dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione (ss.uu., sentenza 4 novembre
1994, n. 9129). 
    4.5. Che la disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura
degli esercizi commerciali non ricada  nell'ambito  della  competenza
legislativa esclusiva dello Stato bensi' nella  competenza  esclusiva
regionale in materia di commercio, e' assunto ormai consolidato nella
giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sentenza n. 1 del 2004;  ord.
11 maggio 2006, n. 199; sentenze 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2007,
n. 165; 12 dicembre 2007, n. 430; 24 ottobre 2008, n. 350;  5  luglio
2010, n. 247; 8 ottobre 2010, n. 288; 21 aprile 2011, n. 150). 
    La tutela della concorrenza  non  rappresenta  dunque  un  limite
«esterno»,  atto  a  comprimere,  fino  a  svuotare,  la   competenza
regionale nella materia del commercio; costituisce semmai  un  limite
«interno» alla normativa regionale, nel senso che  quest'ultima  deve
conformarsi  ai  generali  obiettivi  di  non   discriminazione   fra
operatori economici, di apertura al  mercato  e  di  eliminazione  di
barriere e vincoli al libero esplicarsi dell'attivita' economica  (in
questo senso, da ultimo, Corte cost., sentenze n. 18 del  23  gennaio
2012, n. 150 del 2011). 
    Resta fermo, poi, che l'applicazione delle regole di tutela della
concorrenza non puo' comunque  spingersi  fino  a  misconoscere  o  a
pregiudicare  altri  valori  che  configurino  motivi  imperativi  di
interesse generale ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso diritto
dell'Unione, dalla  Costituzione  e  dal  diritto  primario  statale.
L'esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori e'  al  fondo
di  quella  giurisprudenza  costituzionale  che,   di   recente,   ha
riconosciuto  la  legittimita'  di  leggi  regionali  in  materia  di
commercio  che   introducevano   differenziazioni   di   regime   con
riferimento  alle  dimensioni  dell'impresa,   in   quanto   ispirate
all'esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione
del ruolo delle piccole e medie imprese gia' operanti sul  territorio
regionale (sentenze n. 64 del 2007, n. 288 del 2010). 
    4.6.  Sulla  base  delle  considerazioni  fin  qui   svolte,   la
disposizione di legge qui censurata, cosi' come formulata, nella  sua
assolutezza e  inderogabilita',  non  trova  affatto  base  giuridica
legittimante ne' nel diritto dell'Unione ne' nell'art. 117, comma  2,
della Costituzione e  viola  la  competenza  esclusiva  regionale  in
materia  di  commercio  attribuita  dall'art.  117,  comma  4,  della
Costituzione.   Preclude   conseguentemente   alla   Regione    anche
l'esercizio della  propria  autonomia  amministrativa  nella  materia
considerata e la possibilita' di attribuire  funzioni  amministrative
ai Comuni. 
    La novella legislativa ha un effetto opposto a quello perseguito.
Essa non e' adeguata e proporzionata rispetto all'obiettivo  e  priva
di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli
anch'essi di cura. In particolare, finisce col precludere  la  stessa
possibilita' di graduare il processo di liberalizzazione, in modo che
non travolga gli operatori economici  piu'  deboli,  il  mondo  delle
piccole e medie imprese commerciali che per  dimensioni  e  struttura
non sono immediatamente in grado di competere 24 ore su 24, in  tutti
i giorni festivi dell'anno,  cosi'  come  invece  le  grandi  imprese
distributive, col rischio di disarticolare  un  mercato  distributivo
caratterizzato fin qui da una pluralita' di  formule  e  di  offerte,
capace di garantire anche  servizi  di  prossimita',  essenziali  nei
piccoli paesi e nei centri storici sia  per  i  consumatori  che  per
l'ambiente urbano e sociale. 
    4.7.   Nel   diritto   vivente,   segnatamente   nella    recente
giurisprudenza amministrativa, non mancano precisi  riferimenti  alla
pluralita' dei valori messi in gioco dalla disciplina dei  giorni  ed
orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali. 
    Si e' affermato, fra  l'altro,  che  una  disciplina  locale  che
differenziava le aperture domenicali entro e fuori le  mura  storiche
di  una  citta'  «mira  ad   una   regolamentazione   finalizzata   a
contemperare  i  principi  e  i  valori  della  concorrenza  con   la
salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della  pluralita'
tra diverse tipologie  di  strutture  commerciali  e  della  funzione
sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'»  e  che  «alla
luce di tale contemperamento vanno lette anche le norme sugli orari e
sulle giornate di apertura e di chiusura degli esercizi  commerciali»
(TAR Emilia-Romagna, sentenza n. 8002 del 2010). 
    Analogamente si e' espresso il TAR per il Veneto: 
        «la vigente disciplina in materia  di  commercio  (d.lgs.  n.
114/98 e d.l. n. 223/06, conv. in legge n. 248/06)  non  persegue  in
via esclusiva una finalita' liberalizzatrice, connessa al solo  scopo
di tutelare la liberta'  delle  imprese  e  la  concorrenza,  in  una
prospettiva di sostanziale deregolamentazione del  settore,  giacche'
questo obiettivo avrebbe quale esito  estremo  il  rafforzamento  sul
mercato (delle imprese) di maggiori dimensioni a discapito proprio di
un  mercato  concorrenziale,  ed  esaurirebbe   l'intera   disciplina
nell'ambito della competenza legislativa statale di cui all'art. 117,
secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo  a  negare  una
propria autonomia al "commercio" inteso come «materia attribuita alla
competenza  legislativa  residuale  delle   regioni»   (pacificamente
riconosciuta invece dalla giurisprudenza della Corte  Costituzionale:
cfr. le sentenze 12 dicembre 2007, n. 430, punto 3.2.2.  in  diritto;
11 maggio 2007, n. 165; 9 marzo 2007, n. 64;  11  maggio  2006  ,  n.
199)»; 
    «In ragione dei rilevanti  effetti  di  carattere  urbanistico  e
sociale che derivano dalla presenza o meno  di  esercizi  commerciali
sul territorio, la predetta disciplina mira  a  una  regolamentazione
finalizzata a contemperare i principi e i  valori  della  concorrenza
con la salvaguardia delle aree  urbane,  dei  centri  storici,  della
pluralita' tra diverse tipologie delle strutture commerciali e  della
funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'... per
l'art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del d.lgs. 31 marzo  1998,  n.
114, la disciplina sul commercio persegue anche  le  finalita'  della
tutela  del  consumatore,  con  particolare   riguardo   (...)   alla
possibilita' di approvvigionamento, al servizio di  prossimita',  del
pluralismo ed equilibrio tra le  diverse  tipologie  delle  strutture
distributive e le diverse forme di vendita, con particolare  riguardo
al riconoscimento e alla valorizzazione del  ruolo  delle  piccole  e
medie imprese, e della valorizzazione  e  salvaguardia  del  servizio
commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari»; 
    «e'  pertanto  alla  luce   del   contemperamento   operato   dal
legislatore tra la pluralita' di questi interessi che  devono  essere
lette anche le norme sugli orari  e  sulle  giornate  di  apertura  e
chiusura degli esercizi commerciali, con la conseguente insussistenza
di una regola che preveda la totale liberalizzazione  dei  giorni  di
apertura.» (sentenza n. 135 del 2010); 
    «L'art. 6 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114  attua  tali  principi
prevedendo una programmazione della rete distributiva che: 
        renda "compatibile l'impatto territoriale e ambientale  degli
insediamenti commerciali con particolare riguardo a fattori quali  la
mobilita', il traffico e l'inquinamento  e  valorizzare  la  funzione
commerciale al fine della riqualificazione  del  tessuto  urbano,  in
particolare per quanto riguarda i quartieri urbani degradati al  fine
di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio" (art.
6, comma 1, lett. c); 
        salvaguardi e riqualifichi "i centri storici anche attraverso
il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti
e il  rispetto  dei  vincoli  relativi  alla  tutela  del  patrimonio
artistico ed ambientale" (art. 6, comma 1, lett. d); 
        favorisca "gli insediamenti commerciali destinati al recupero
delle  piccole  e  medie  imprese  gia'   operanti   sul   territorio
interessato, anche al fine di salvaguardare i  livelli  occupazionali
reali  e  con  facolta'  di  prevedere   a   tale   fine   forme   di
incentivazione" (art. 6, comma 1, lett. f); 
        individui "i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti
commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali  e
ambientali, nonche' dell'arredo urbano, ai quali sono  sottoposte  le
imprese  commerciali  nei  centri  storici  e  nelle   localita'   di
particolare interesse artistico e naturale" (art. 6, comma  2,  lett.
b); 
        tenga conto dei "centri storici, al fine di  salvaguardare  e
qualificare la presenza delle attivita' commerciali e artigianali  in
grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare  gli  esercizi
aventi  valore  storico  e  artistico  ed  evitare  il  processo   di
espulsione delle attivita' commerciali e artigianali" (art. 6,  comma
3, lett. c). 
    E' pertanto alla luce del contemperamento operato dal legislatore
tra la pluralita' di questi interessi che devono essere  lette  anche
le norme sugli orari e sulle giornate di apertura  e  chiusura  degli
esercizi commerciali.» (TAR Veneto, sez. III, 28 luglio 2011, n  126,
che richiama  la  propria  sentenza  n.  3819  del  2009;  conf.  TAR
Emilia-Romagna, sez. Bologna, n. 8002 del 2010; TAR Piemonte, n. 3585
del 2009; v. anche TAR Lombardia - Milano, n. 5658 del 2010). 
    4.8.  Gli  effetti  negativi  della  liberalizzazione   assoluta,
immediata e indifferenziata, dei giorni e  degli  orari  di  apertura
degli esercizi  commerciali  introdotta  dalla  disposizione  statale
censurata si colgono con evidenza particolare a quegli  esercizi  che
somministrano alimenti e bevande. 
    Ora quei locali possono restare aperti  ininterrottamente,  anche
per tutta la notte, dovunque,  inclusi  i  centri  storici,  le  zone
prossime ai beni culturali, i luoghi  densamente  abitati.  Gia'  era
alta la tensione sociale provocata dalla difficolta' di  contemperare
l'attivita' di quei locali, fin qui aperti fino alle 2 di notte,  con
il diritto al riposo dei residenti nella  zona  circostante,  con  la
mancanza  di  un  adeguato  servizio  minimo   notturno   di   tutela
dell'ordine e sicurezza pubblici,  dei  beni  culturali,  dell'igiene
pubblica. E' noto che la pubblica amministrazione e la forza pubblica
non dispongono  di  risorse  sufficienti  ad  assicurare  neppure  un
controllo minimo del territorio  nelle  ore  notturne;  l'allarme  e'
elevato e gli stessi  operatori  economici  sono  disorientati  e  si
rivolgono all'amministrazione invocando una disciplina ragionevole ed
uniforme.  Le  stesse  associazioni  dei  consumatori  segnalano   il
disorientamento dei clienti, che non dispongono piu' di  informazioni
preventive  e  certe  sull'apertura  degli  esercizi  commerciali   e
esprimono forte disagio di fronte ad una imprevedibilita'  che  nuoce
alle loro primarie esigenze di programmazione degli acquisti. 
    Il risultato realmente conseguito dalla  misura  statale  si  sta
rivelando controproducente ed  incoerente  con  lo  stesso  obiettivo
dichiaratamente perseguito, di meglio tutelare  i  consumatori  e  di
rafforzare la concorrenza leale e trasparente. 
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, per  violazione  degli
articoli 3, 97, I comma, 113, I comma  della  Costituzione,  117,  VI
comma, 118, I e II  comma,  nonche'  della  legge  costituzionale  18
ottobre 2001, n. 3 e del principio di  leale  collaborazione  di  cui
all'art.120 della Costituzione. 
    L'art. 35 del decreto-legge n. 201/2011, cosi'  come  convertito,
con modificazioni, dalla legge di conversione  22  dicembre  2011  n.
214, conferisce all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato
il potere di intervenire  con  un  parere  motivato,  entro  sessanta
giorni, su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e  i
provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale,  locale
o regionale, che ritenga emanati in violazione delle norme  a  tutela
della concorrenza e del mercato. La disposizione prevede poi  che  se
la pubblica amministrazione  non  si  conformi  nei  sessanta  giorni
successivi,   l'Autorita'   possa   presentare,   per   il    tramite
dell'Avvocatura  dello  Stato,  ricorso   giurisdizionale   entro   i
successivi trenta giorni. 
    In questo modo, si finisce col sottoporre gli atti  regolamentari
ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo  di
legittimita',  su  iniziativa  di  un'Autorita'  statale,  per  certi
aspetti analogo a quella forma di controllo che  era  originariamente
prevista  dal  previgente  primo  comma   dell'articolo   125   della
Costituzione ed e' stata poi abrogata con la legge costituzionale  n.
3 del 2001. Si deborda pero' dai limiti ricavabili dalla sentenza  n.
64 del 2005 di codesta ecc.ma Corte:  «E'  vero  che,  con  il  nuovo
titolo V della Costituzione, i controlli di legittimita'  sugli  atti
amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro
ordinamento, a seguito dell'abrogazione del primo comma dell'art. 125
e  dell'art.  130  della  Costituzione,  ma  questo  non  esclude  la
persistente legittimita', da un  lato,  dei  c.d.  controlli  interni
(cfr. art. 147 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000)  e,  dall'altro,
dell'attivita'  di  controllo  esercitata  dalla  Corte  dei   conti,
legittimita' gia' riconosciuta da una molteplicita' di  decisioni  di
codesta Corte sulla base di norme costituzionali  diverse  da  quelle
abrogate (cfr. sentenze nn. 470 del 1997; 335 e 29 del 1995)». 
    Sotto altro profilo,  con  l'attribuzione  all'Autorita'  di  una
generale legittimazione processuale  attiva  ad  impugnare  gli  atti
amministrativi  generali,  i  regolamenti  ed  i   provvedimenti   di
qualsiasi amministrazione pubblica che a suo parere violino le  norme
a  tutela  della  concorrenza  e  del   mercato,   la   disposizione,
modificando la legge n. 287 del 1990, configura, come e'  gia'  stato
osservato da una parte della dottrina, una  surrettizia  introduzione
della figura del  Pubblico  Ministero  nel  processo  amministrativo,
contrastante  con  la  sua  natura   strutturale   di   giurisdizione
soggettiva.  Cio'  contrasta  con  l'art.   113,   I   comma,   della
Costituzione, dove si prevede che sia la titolarita' di una posizione
giuridica sostanziale, e la lesione della stessa ad opera del  potere
amministrativo, la condizione generale per agire innanzi  al  giudice
amministrativo. Ne' e' ipotizzabile  che  l'Autorita'  Garante  della
concorrenza e  del  mercato,  avendo  essa  il  compito  di  tutelare
l'interesse pubblico o generale, possa godere di  una  legittimazione
straordinaria a tutela dell'interesse collettivo degli imprenditori o
dei consumatori. 
    Non mancano poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di
irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del  diritto.
Manca una disciplina del termine di decorrenza dei 60 giorni entro  i
quali  l'Autorita'  puo'  formulare  il  proprio   parere   motivato,
prodromico all'eventuale  proposizione  del  ricorso  giurisdizionale
entro i successivi 30 giorni. Siffatta incertezza sul dies a  quo  si
riflette sulla stabilita' degli atti regolamentari e  provvedimentali
regionali, con ulteriore lesione -  per  difetto  di  ragionevolezza,
censurabile anche ai sensi dell'art.3 della Costituzione e  ai  sensi
dell'art.97 sul buon andamento della pubblica amministrazione - della
sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita. 
    Ancora, la legittimazione  ad  agire  dell'Autorita'  non  appare
coordinata con la legittimazione  propria  delle  parti  private,  di
talche' il ricorso dell'una potrebbe risolversi in un  intervento  di
supplenza o surrogazione in favore  di  parti  private  decadute  dal
termine  per  proporre  l'impugnativa  ordinaria.   Palese   e'   poi
l'incongruenza  che  si  determina  quando  l'Autorita',  tenuta   ad
avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura di Stato,  impugni  atti  di
un'amministrazione   statale,   tenuta   pur   essa   ad    avvalersi
dell'Avvocatura di Stato. 
    Si ravvisa in tutto quanto esposto la violazione  degli  articoli
3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI comma,  118,
I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001,  n.
3 e del  principio  di  leale  collaborazione.  La  violazione  delle
suddette norme si risolve poi anche in una menomazione della potesta'
regolamentare  e  amministrativa  costituzionalmente  garantita  alla
Regione ai sensi degli articoli 117, VI comma, e 118, I e II comma. 
6) Illegittimita' costituzionale  dell'art.  44-bis,  per  violazione
degli articoli 97, 117 e 118 della Costituzione e  del  principio  di
leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione. 
    Preliminarmente  all'esposizione  delle  argomentazioni   avverso
l'articolo 44-bis, la difesa regionale reputa  necessario  analizzare
le circostanze e le condizioni  dalle  quali  ha  tratto  origine  la
disposizione. Particolarmente utile a tale scopo  appare  la  lettura
del Dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati,  dal  quale
si evince che l'articolo in argomento  e'  stato  introdotto  durante
l'esame in sede referente e che lo stesso  riproduce  sostanzialmente
il contenuto di due proposte di legge statali  (C.  2727  e  C  4161)
giacenti nelle commissioni della Camera dei deputati e di un  disegno
di  legge  (S.  2596)  pendente   nelle   commissioni   del   Senato.
L'inserimento del testo di cui si tratta durante l'esame della  legge
di conversione da parte della Commissione in sede referente, e' stato
evidentemente frutto di una frettolosa redazione dell'articolato  che
appare stilato accorpando una pluralita'  di  disposizioni  contenute
nelle proposte  legislative  summenzionate.  Per  un  verso,  quindi,
l'integrazione, che assume particolare rilevanza per le Regioni,  non
e' stata concertata nelle sedi istituzionali deputate, in  quanto  e'
stata  decisa  soltanto  per  effetto   dell'esame   compiuto   dalle
commissioni parlamentari; per altro verso, l'esigenza di  evitare  lo
spreco di risorse finanziarie derivante dalla persistente  condizione
di incompletezza delle opere pubbliche per le quali comunque  sovente
erano state gia' impiegate ingenti somme,  ha  conferito  alla  norma
quella connotazione straordinaria di necessita' e urgenza  -  propria
della decretazione  di  cui  all'articolo  77  della  Costituzione  -
secondo un assunto autoreferenziale incompatibile con il parametro di
legittimita' invocato, atteso che proprio il protrarsi ingiustificato
dei lavori, in assenza di qualsiasi risultato utile, ha determinato -
per poter legittimare l'intervento di cui  si  tratta  -  una  simile
qualificazione in ordine ad opere che originariamente non possedevano
tali  caratteristiche,  come   testimoniano   appunto   le   proposte
legislative di cui erano state fatte oggetto e che erano finalizzate,
per converso, all'emanazione di una mera  legge  ordinaria  ai  sensi
degli articoli 70 e ss. della Costituzione. 
    La norma de qua istituisce, dunque,  un  elenco-anagrafe  statale
presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti,  articolato
a livello regionale, al fine del coordinamento dei dati relativi alle
opere pubbliche incompiute  come  definite  ai  commi  1  e  2  della
medesima disposizione. L'operativita' dell'elenco istituito  ex  lege
spetta al Ministero competente che, entro  tre  mesi  dalla  data  di
entrata  in  vigore  della  legge   di   conversione,   con   proprio
regolamento, e' investito del compito di  definire  le  modalita'  di
redazione, di formazione della graduatoria nonche' i criteri in  base
ai quali le opere sono  iscritte  nell'elenco,  tenendo  conto  dello
stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime  al
completamento. Proprio la previsione di un  potere  regolamentare  in
capo al Ministero, al riguardo, potrebbe fondare la supposizione che,
giusta  il  disposto  del  comma  sesto   dell'articolo   117   della
Costituzione,  si  vena  in  una  materia  di  legislazione   statale
esclusiva. E invero, se  si  considera  l'oggetto  sostanziale  della
norma  in  esame,  cioe'  la  creazione  una  banca  dati  telematica
finalizzata alla comunicazione di flussi informativi tra lo  Stato  e
le Regioni, si potrebbe ragionevolmente ricondurre la norma di cui si
tratta  alla  materia  «coordinamento   informativo   statistico   ed
informatico  dei  dati  dell'amministrazione  statale,  regionale   e
locale» di cui all'articolo 117,  comma  secondo,  lettera  r)  della
Costituzione.  Ma  la  disposizione,  in  realta',  ad  avviso  dello
scrivente patrocinio, presenta contenuti applicativi che non  possono
esaurirsi nell'individuazione  di  un  ambito  di  sicura  competenza
esclusiva statale ed esorbitano dall'anzidetto contesto per i  motivi
di seguito specificati che legittimano l'impugnazione de qua. 
    Infatti,  per  effetto  dell'inquadramento  normativo   proposto,
afferente  l'ambito  della  disciplina  statale,  si  rende  comunque
necessario soffermare  l'attenzione  sulla  tipologia  dei  dati  che
devono essere inseriti nell'elenco-anagrafe citato; si tratta, cioe',
di  informazioni  correlate  alle  opere  pubbliche  incompiute  come
definite ai commi l e 2 della medesima disposizione e la formulazione
del testo non permette di individuare  con  sicurezza  se  le  stesse
siano  solo  quelle  di  competenza  dello  Stato  o,  per  converso,
includano  anche  quelle  di  competenza  regionale.  E  invero,  che
nell'elenco in argomento siano da annoverarsi anche  opere  pubbliche
di  ambito  regionale,  potrebbe  indursi  dalla  previsione  di  una
sub-articolazione regionale, sempre che la stessa non sia  invece  da
intendersi quale articolazione organizzativa del  Ministero  indicato
quale titolare esclusivo della funzione di censimento e gestione  dei
dati. Ma, sul punto, un elemento sicuramente  corroborante  l'ipotesi
che le opere pubbliche regionali siano anch'esse oggetto della norma,
al pari di quelle statali, e' rinvenibile nella previsione  contenuta
al  comma  della  disposizione,  laddove,  evocando   competenze   ed
attribuzioni diverse da quelle meramente statali, testualmente  cosi'
recita: «Ai fini dei criteri di cui al comma 5 - cioe' i  criteri  di
adattabilita' delle opere ai fini del loro riutilizzo  ed  i  criteri
che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni
singola opera - si tiene conto delle diverse  competenze  in  materia
attribuite allo Stato e alle regioni.» 
    L'affermazione, nel contesto  considerato,  appare  di  difficile
inserimento se non addirittura  apodittica,  qualora  si  postuli  la
sussistenza di un ambito esclusivo di competenza legislativa statale,
poiche'  conduce  inequivocabilmente  a   concludere   che   i   dati
informativi dell'elenco di cui si tratta non  siano  solo  quelli  di
competenza esclusiva dello Stato,  ma  anche  dichiaratamente  quelli
regionali.  In  altri  termini,  risulta  esercitata   una   potesta'
legislativa esclusiva in ambiti che,  per  esplicita  ammissione  del
legislatore,  seppure  indifferenziata,  sono   riferibili   ad   una
pluralita' di competenze che la  Costituzione  attribuisce  sia  allo
Stato  che  alle  Regioni.  Da  cio'  si  deduce  l'incontrovertibile
conclusione che le  opere  pubbliche  incompiute  possano  riguardare
anche  ambiti  materiali  di  competenza  concorrente   o   residuale
regionale. 
    Dato per assunto l'enunciato che precede, non resta che  definire
l'ambito materiale afferente le opere pubbliche a cui si  riferiscono
i dati informativi da inserire  nell'elenco,  al  fine  di  delineare
compiutamente le diverse competenze  ripartite  tra  lo  Stato  e  le
Regioni. Al riguardo, codesta ecc.ma Corte, nella  decisione  n.  303
del 2003, aveva per la prima volta asserito  che  i  lavori  pubblici
«non sono inquadrabili in una materia ma  si  qualificano  a  seconda
dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere  ascritti
di volta in volta a potesta' legislative esclusive dello Stato ovvero
a potesta' legislative  concorrenti».  Ne  consegue  che  le  diverse
competenze statali o regionali non riguardano  la  «materia»  in  se'
considerata, ma e' l'oggetto del lavoro pubblico, cioe' la  tipologia
dell'opera pubblica, l'elemento  qualificante  che  puo'  afferire  a
settori riconducibili a materie di competenza esclusiva  statale,  di
competenza concorrente o di competenza residuale regionale. Pertanto,
se l'elenco de quo si riferisce a tutte le opere pubbliche  esistenti
ed incompiute secondo le definizioni date,  non  puo'  non  includere
anche quelle riconducibili a settori esclusivi regionali. 
    Qualora, continuando nella  linea  argomentativa  prospettata,  e
accogliendo la ricostruzione ermeneutica appena delineata,  la  norma
si fosse limitata a disciplinare solo le modalita'  di  comunicazione
di flussi informativi, funzionali alla  costituzione  e  manutenzione
dello strumento conoscitivo dato dalla banca  dati,  in  effetti  non
sarebbe  ravvisabile  alcun  vulnus   alle   attribuzioni   regionali
costituzionalmente garantite. 
    Conseguentemente, per quanto attiene tale specifico  profilo,  la
disposizione non puo' che essere interpretata  in  senso  conforme  a
Costituzione, nel senso che lo Stato  deve  limitarsi  a  dettare  le
regole  tecniche  funzionati  alla  comunicazione  dei  sistemi.   Si
richiama, al riguardo, la sentenza n. 133 del 2008,  nella  parte  in
cui codesta ecc.ma Corte ha dichiarato non fondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale di disposizioni che, in quanto  destinate
a favorire  il  riuso  dei  software  elaborati  su  committenza  del
Ministro  per  le   riforme   e   le   innovazioni   nella   pubblica
amministrazione avevano unicamente  lo  scopo  di  razionalizzare  la
spesa e, nel contempo, favorire l'uniformita'  degli  standard.  Tale
pronuncia, emessa in  riferimento  alla  materia  del  «coordinamento
informatico», ha cosi' sancito l'applicabilita', anche nei  confronti
delle Regioni e degli enti locali,  di  disposizioni  -  dettate  per
creare strumenti omogenei destinati al contenimento  dell'impiego  di
risorse finanziarie - che si collocassero all'interno della linea  di
confine  assegnata  alla  competenza  esclusiva  statale,  in  quanto
recanti regole tecniche funzionali alla comunicabilita'  dei  sistemi
ed al loro sviluppo collaborativo. 
    Per converso, nel caso in  cui  vengano  introdotte  nel  tessuto
ordinamentale norme che, apparentemente indirizzate agli scopi  sopra
descritti, contengano in realta' l'attribuzione allo Stato del potere
di individuare criteri di adattabilita' delle  opere  finalizzati  al
riutilizzo    delle    medesime,    nonche'    criteri     funzionali
all'individuazione di ulteriori destinazioni  dell'opera  stessa,  si
pone in essere un intervento legislativo  fisiologicamente  idoneo  a
pregiudicare, sovvertendola drasticamente, l'autonomia  di  esercizio
delle  competenze  legislative  ed  amministrative  regionali,   come
garantite dagli  articoli  117  e  118  della  Costituzione,  poiche'
strettamente correlate alle opere pubbliche  direttamente  imputabili
alla sfera giuridica regionale. Ed invero le determinazioni  riferite
al riutilizzo o alla diversa destinazione dell'opera pubblica rimasta
incompiuta che sia, per quanto  detto,  riconducibile  a  settori  di
esclusiva competenza regionale, devono necessariamente  competere  in
via assoluta alla Regione interessata. 
    In tale  contesto  non  pare  poter  sussistere  alcuna  potesta'
statale  generalizzata,  atteso  che,  qualora  si   concepisse   una
eventuale   attrazione,   attraverso   l'esercizio   delle   funzioni
amministrative, di potesta' legislative diverse  a  quelle  esclusive
statali, l'intervento normativo potrebbe essere legittimamente  posto
in essere solo ed esclusivamente secondo  le  forme  e  le  modalita'
della c.d. «sussidiarieta' verticale». Ma si tratta  di  modalita'  e
forme del tutto insussistenti in tale fattispecie. 
    Singolarmente insufficiente, e per  l'effetto  significativamente
lesiva, risulta cosi' la mera previsione, contenuta al comma 7  della
norma impugnata, secondo cui il regolamento ministeriale, destinato a
definire i criteri di adattabilita' e  delle  ulteriori  destinazioni
delle opere pubbliche regionali, dovrebbe semplicemente «tenere conto
delle diverse competenze». La  disposizione,  infatti,  per  come  e'
stata strutturata, e' sicuramente contraria ai parametri di  garanzia
costituzionale   delineati   proprio   da   codesta   ecc.ma    Corte
Costituzionale nella  sentenza  n.  303  del  2003,  che  afferma  la
necessarieta' di imporre «ai principi di sussidiarieta' e adeguatezza
una  valenza  squisitamente  procedimentale,  poiche'  l'esigenza  di
esercizio unitario che consente di attrarre,  insieme  alla  finzione
amministrativa, anche quella legislativa, puo' aspirare a superare il
vaglio di legittimita' costituzionale solo in presenza di una 
    disciplina che prefiguri  un  iter  in  cui  assumano  il  dovuto
risalto le attivita' concertative  e  di  coordinamento  orizzontale,
ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al  principio
di lealta'.» Appare cosi di tutta evidenza  come,  al  contrario,  in
tale fattispecie sia stato omesso  qualunque  riferimento  al  dovuto
coinvolgimento regionale sul punto, da congegnare nella  forma  della
necessaria intesa, proprio come ribadito nella  menzionata  decisione
n. 303 del 2003. 
    Ne consegue che le modalita' di redazione e di  formazione  della
graduatoria, nonche' i criteri di cui al comma 5, tutti indubbiamente
riferibili  all'attuazione  dell'elenco  anagrafe  statale,   laddove
fossero intesi riferiti anche ad opere pubbliche afferenti a  materie
di  competenza  concorrente  o  di  competenza  esclusiva  regionale,
dovrebbero necessariamente essere concordati  mediante  lo  strumento
dell'intesa raggiunta in sede di Conferenza  Stato-Regioni.  L'omessa
previsione  di  un  tale  strumento  concertativo  risulta   pertanto
contraria al principio di leale collaborazione nei rapporti tra Stato
e Regioni riconosciuto nell'articolo 120 della Costituzione. 
    Sul  punto  non  pare  potersi  fondatamente  obiettare  che   il
riferimento alla competenza esclusiva annessa a  quel  «coordinamento
informativo statistico ed informatico» di cui all'articolo 117, comma
secondo, lettera r), della  Costituzione  escluda  il  coinvolgimento
regionale nelle ipotesi in cui detta materia si  intrecci  con  altre
competenze regionali. Si rammenta, al riguardo, come  codesta  ecc.ma
Corte,  nella   sentenza   n.   31   del   2005,   abbia   dichiarato
l'illegittimita' del comma 3 dell'articolo 26 della legge n. 289  del
2003 in quanto la  previsione  ivi  contenuta,  nella  parte  in  cui
contemplava il mero parere della Conferenza Unificata, non era  stata
ritenuta dal giudice delle  leggi  misura  adeguata  a  garantire  il
rispetto del principio di leale collaborazione di cui si e' detto. Ed
invero  in  tale  pronuncia  e'  stato  chiarito  il  principio,  qui
invocato, per il quale, per  quanto  la  disposizione  in  esame  sia
riconducibile alla materia «coordinamento informativo  statistico  ed
informatico» di  spettanza  esclusiva  del  legislatore  statale,  la
stessa presenta un contenuto  precettivo  idoneo  a  determinare  una
forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni propria  della
materia «organizzazione amministrativa delle  Regioni  e  degli  enti
locali», con cio' rendendo indispensabile garantire un piu'  incisivo
coinvolgimento nella fase di attuazione delle disposizioni attraverso
il corretto ricorso allo strumento dell'intesa. 
    Per altro verso, la norma si presta a essere oggetto  di  censura
anche secondo un ulteriore ed autonomo taglio ermeneutico, desumibile
da eventuali finalita' di natura finanziaria, collegate  allo  spreco
delle risorse economiche impiegate per  tali  opere  rimaste  appunto
incompiute, e  che  come  tale  sarebbe  riconducibile  alla  materia
concorrente del  «coordinamento  della  finanza  pubblica».  Infatti,
anche a voler aderire a simile prospettazione interpretativa, in ogni
caso rimarrebbe del tutto impregiudicata ed inalterata la titolarita'
dell'opera che non potrebbe subire trasformazioni radicali  al  punto
da essere qualificata statale anche se di competenza regionale. Nello
specifico, codesta ecc.ma Corte, nella decisione  n.  302  del  2003,
seppure intervenendo in un giudizio instaurato in  epoca  antecedente
la novella costituzionale  del  2001,  quando  cioe'  il  riparto  di
attribuzioni tra Stato  e  Regioni  presentava  contenuti  del  tutto
diversi  dagli  attuali,  aveva  tuttavia  affermato  che  «si   deve
escludere  che  il  criterio   del   finanziamento   prevalente   sia
suscettibile  di  trasferire  un'opera  pubblica   dalla   sfera   di
competenza regionale a quella statale.». 
    Si rammenta come, nella sentenza n. 79 del 2011,  codesta  ecc.ma
Corte abbia riconosciuto la sussistenza di una deroga alla competenza
regionale, per effetto dell'avvenuta classificazione  dell'opera  tra
quelle di valore strategico nazionale con conseguente  provvista,  da
parte dello Stato, dei  mezzi  finanziari  per  realizzarla.  E  tale
assunto non puo' non valere  anche  relativamente  alla  disposizione
impugnata, per quanto la  stessa  non  esaurisca  il  proprio  ambito
applicativo alle sole opere strategiche di cui alla legge 21 dicembre
2001, n. 443, come era invece previsto nella proposta di legge C.  n.
4161 e nel disegno di legge S. n. 2596,  con  statuizione  certamente
piu' omogenea e costituzionalmente orientata. 
    La  specificazione,  contenuta  al  comma  4,  secondo  il  quale
«l'elenco-anagrafe  di  cui  al  comma  3  e'  articolato  a  livello
regionale  mediante  l'istituzione  di  elenchi-anagrafe  presso  gli
assessorati regionali competenti per le opere pubbliche» si configura
come decisamente invasiva  della  sfera  di  titolarita'  legislativa
concernente  l'organizzazione  regionale   tutelata   dal   combinato
disposto degli articoli 97 e 117, quarto comma della Costituzione. 
    Altrimenti detto, il precetto di dettaglio contenuto nella  norma
censurata laddove prevede che lo Stato, dopo aver istituito  l'elenco
nazionale, certamente di propria spettanza, pervenga a  declinare  il
modello dell'articolazione, non puo' comprimere la potesta' regionale
cui compete la strutturazione dello schema organizzativo,  nel  quale
e'  certamente  ricompresa  anche   l'individuazione   del   soggetto
detentore  dell'elenco  di  cui  si  tratta.  L'attribuzione   e   la
ripartizione delle funzioni amministrative regionali, e quindi  anche
la tenuta e gestione dell'elenco, compete espressamente ad un  organo
regionale, ovvero alla Giunta regionale,  ai  sensi  dell'ordinamento
regionale veneto vigente. 
    La  sussistenza  della  competenza  legislativa  regionale  anche
nell'ambito  della  materia  «lavori  pubblici»,  e'  stata   infatti
riconosciuta anche da Codesta ecc.ma Corte nella decisione n. 53  del
2011, per l'appunto in relazione ai profili meramente  organizzativi,
in  quanto  attinenti  all'organizzazione  interna   degli   apparati
amministrativi e tecnici regionali. 
    La lesione prodotta dalla norma impugnata nell'odierno  giudizio,
nella parte in cui ignora  la  potesta'  organizzativa  esistente  in
materia come tutelata dalla Carta Fondamentale,  e'  aggravata  dalla
mancata previsione di una  clausola  di  cedevolezza  che,  limitando
l'efficacia  del   precetto   statale,   consentisse   l'integrazione
normativa regionale con  cio'  riconoscendone  le  attribuzioni.  Sul
punto, si richiama anche quanto  asserito  da  codesta  ecc.ma  Corte
nella sentenza n. 401 del 2007, che  ha  dichiarato  l'illegittimita'
della disposizione  -riferita  alla  composizione  della  commissione
giudicatrice - contenuta nell'articolo 84 del decreto legislativo  n.
163 del 2006, poiche'  non  prevedeva  una  clausola  di  cedevolezza
rispetto alla normativa  regionale  divergente,  cosi'  assumendo  la
sussistenza della lamentata violazione della  potesta'  organizzativa
riconosciuta agli enti diversi dallo Stato. 
    Appare di tutta evidenza come il quadro giuridico e istituzionale
sopra delineato, afferente le potesta' legislative ed  amministrative
correlate  all'allocazione  dei  compiti  nell'ambito   del   modello
organizzativo regionale, non possa subire consistenti alterazioni per
la ritenuta primazia di  quelle  esigenze  di  uniformita'  nazionale
connesse al «coordinamento informativo statistico ed informatico  dei
dati» certamente di competenza esclusiva statale. Ed invero  in  tale
fattispecie non si  vede  come,  qualora  la  Regione  legittimamente
indicasse la struttura regionale competente alla  tenuta  e  gestione
dell'elenco, potesse  risultare  compromesso  il  mero  coordinamento
informativo di dati che si realizzerebbe comunque per  effetto  della
connessione  della  banca   dati.   Per   questo,   la   inderogabile
indicazione, come effettuata nella norma, del soggetto legittimato  a
detenere i dati, individuato oltretutto in un rappresentante politico
e non in un organo tecnico,  si  configura  ultronea  e  patentemente
lesiva  della  autonomia  regionale.  Il  patrocinio  regionale,   al
riguardo, invoca fermamente il principio espresso da  codesta  ecc.ma
Corte nella decisione n. 376 del 2003, gia' richiamata, per il  quale
solo  il  mero  coordinamento  informativo  perseguito  dallo   Stato
nell'ambito della materia di competenza esclusiva, per se'  solo  non
puo'   essere   legittimato   a    ledere    sfere    di    autonomia
costituzionalmente garantite. L'eccedenza dell'ambito di  previsione,
ove non necessaria e proporzionata  al  conseguimento  dell'obiettivo
statale,  integra,  correlativamente,  un  vulnus  alle   prerogative
regionali costituzionalmente garantite. 
    Sul punto specifico, inoltre, come codesta ecc.ma Corte ha  avuto
modo di precisare nella decisione n. 271 del 2005  «questo  esclusivo
potere legislativo statale concerne solo  un  coordinamento  di  tipo
tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui
esercizio, comunque, non  puo'  escludere  una  competenza  regionale
nella disciplina e gestione di  una  propria  rete  informativa».  Se
dunque non si ravvisano assiomi ostativi a che una Regione possa gia'
aver introdotto nel proprio tessuto organizzativo una  propria  banca
dati delle opere pubbliche, nella  piena  titolarita'  delle  proprie
competenze, una disposizione statale  che  intervenisse  al  riguardo
potrebbe  al  piu'   solamente   affermare   la   necessarieta'   del
coordinamento, da cui  scaturirebbe  la  valutazione  opzionale,  per
l'Amministrazione  regionale,  di  modellare  la  banca   dati   gia'
esistente, adeguandola, in ragione  degli  standard  funzionali  alla
gestione, oppure di  crearne  una  nuova,  dedicata  all'assolvimento
degli obblighi di coordinamento statale di cui  si  e'  detto,  fatta
salva, in ogni  caso,  la  concertazione  circa  la  definizione  dei
parametri e  dei  criteri  di  uniformita'  che  non  possono  essere
autoritativamente imposti per quanto supra argomentato. 
    La pretesa regionale all'espunzione della disposizione de qua non
appare affatto irragionevole ne'  eccessiva,  atteso  che  l'infelice
formulazione dell'articolo, come gia' ipotizzato, frutto  di  stesure
frettolose  e  non  coordinate,  appare  ancora  piu'  stridente   se
confrontata con  leggi  successive,  concettualmente  correlate  alla
norma odiernamente impugnata, quali il d.lgs. 29  dicembre  2011,  n.
229, «Attuazione dell'articolo 30, comma 9, lettere  e),  f),  e  g),
della legge 31 dicembre 2009,  n.196,  in  materia  di  procedure  di
monitoraggio sullo stato di  attuazione  delle  opere  pubbliche,  di
verifica  dell'utilizzo  dei  finanziamenti  nei  tempi  previsti   e
costituzione del Fondo opere e del Fondo progetti», pubblicato  nella
G.U. n. 30 del 6 febbraio 2012 ed entrato in vigore  il  21  febbraio
2012.  Tale  decreto,  in  concreto,  nel  disciplinare  un   sistema
gestionale informatizzato finalizzato  al  monitoraggio  delle  opere
pubbliche e interessante tutte le  pubbliche  amministrazioni,  lungi
dal  dettare  precetti  incidenti  sull'assetto  organizzativo  delle
stesse,  si  limita  correttamente  a   dettare   regole   specifiche
indispensabili alla funzionalita' del  sistema  in  riferimento  alle
caratteristiche ed  alle  finalita'  dell'intervento  normativo,  per
molte ragioni non dissimile da quello oggetto del presente giudizio. 
 
                       Istanza di sospensione 
 
    Ai sensi dell'art. 35  della  legge  n.  87/53,  come  sostituito
dall'art. 9 della legge n. 131/2003 
    La Regione del Veneto chiede che codesta ecc.ma Corte, nelle more
del giudizio di legittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  di
legge statale qui censurate, sospenda l'esecuzione degli articoli 23,
commi da 14 a 20, e 31, comma 1, ai sensi dell'art. 35 della legge n.
87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003, che tanto
consente  in  presenza  di  un  rischio  di   pregiudizio   grave   e
irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini. 
    Quanto all'art. 23, commi da 14 a  20,  ne  deriva  la  immediata
preclusione delle elezioni per il rinnovo  dei  consigli  provinciali
sciolti  o  in  scadenza.  Cio'  determina,  nel  Veneto,   l'effetto
immediato di impedire l'indizione  per  la  prossima  primavera  2012
delle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale  di  Belluno,
attualmente sciolto, e  del  consiglio  provinciale  di  Vicenza,  in
scadenza di mandato. 
    I  cittadini  di  quelle  province  si   vedono   dunque   negato
l'elettorato  attivo  e  la  rappresentanza  democratica  a   livello
provinciale, e alla Regione del Veneto e' preclusa la possibilita' di
continuare ad avvalersi di quegli Enti per l'esercizio delle numerose
ed importanti funzioni loro attribuite. 
    A  quest'ultimo  proposito,  poi,   le   disposizioni   censurate
impongono alla Regione del Veneto di provvedere entro il 31  dicembre
2012  al  trasferimento  delle  funzioni  conferite  dalla  normativa
vigente alle Province, nonche' delle loro risorse umane,  finanziarie
e strumentali, ai  Comuni  o  alla  Regione  stessa  per  assicurarne
l'esercizio unitario, a pena di subire il potere sostitutivo statale. 
    Si  tratta  di  adempimenti   che   richiedono   interventi   sia
legislativi che amministrativi complessi e onerosi  anche  sul  piano
finanziario ed organizzativo,  con  riflessi  anche  su  migliaia  di
dipendenti. 
    Risponde all'interesse generale evitare l'avvio di un processo di
tali  dimensioni  -   che   avrebbe   effetti   irreversibili   sulle
istituzioni, sui dipendenti, sulla vita dei cittadini - prima che  ne
sia approfonditamente valutata la compatibilita' costituzionale. 
    Quanto all'art. 31, comma 1, l'improvvisa deregolamentazione  sta
recando grave pregiudizio proprio alla concorrenza e trasparenza  del
mercato, e alla certezza del diritto per tutte  le  parti  coinvolte,
operatori economici e consumatori. La istantanea soppressione di ogni
limite agli orari e giorni di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi
commerciali, specie con riguardo alle attivita'  di  somministrazione
di alimenti e bevande, sta determinando nel Veneto un  forte  allarme
sociale, anzitutto con riguardo alla  sicurezza  pubblica  nelle  ore
notturne, e un grave disorientamento sia della  clientela  che  degli
operatori e delle stesse amministrazioni  comunali,  incalzate  dalla
popolazione a intervenire d'urgenza per dare indicazioni  univoche  e
criteri  di  comportamento  uniformi.  Gia'  si  profila  un  diffuso
contenzioso. 
    Risponde dunque all'interesse  generale  sospendere  l'esecuzione
dell'art. 31, comma  1,  nelle  more  del  giudizio  di  legittimita'
costituzionale, per evitare pericoli per la sicurezza pubblica  e  il
rischio concreto di un'irreversibile alterazione del mercato, a danno
soprattutto delle piccole e medie imprese.