Ricorso proposto dalla Regione Veneto, (C.F. 80007580279 - P.IVA 02392630279), in persona del Presidente della Giunta Regionale dott. Luca Zaia (C.F. ZAILCU68C27C957O), autorizzato con delibera della Giunta regionale n. 150 del 31 gennaio 2012 (all. 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti prof. Bruno Barel (C.F. BRLBRN52D19M089Z) del Foro di Treviso, prof. Luca Antonini (C.F. NTNLCU63E27D869I) del Foro di Milano, Ezio Zanon (C.F. ZNNZEI57L07B563K) coordinatore dell'Avvocatura regionale, Daniela Palumbo (C.F. PLMDNL57D69A266Q) della Direzione Affari Legislativi e Luigi Manzi (C.F. MNZLGU34E15H501V) del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri, n. 5 (per eventuali comunicazioni: fax 06/3211370, posta elettronica certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org); Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle seguenti disposizioni del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, cosi' come convertito in legge, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 300 del 27 dicembre 2011: dell'art. 5, per violazione degli articoli 3, 117, III e IV comma; 118, I e II comma; 119 della Costituzione e del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione; dell'art. 23, comma 14, per violazione degli articoli 118, I e II comma, della Costituzione; dell'art. 23, comma 15, per violazione degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione; dell'art. 23, comma 16, per violazione degli articoli l, 5, 114, 138 della Costituzione; dell'art. 23, comma 17, per violazione degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione; dell'art. 23, comma 18, per violazione degli articoli 118, I e II comma, e 120 della Costituzione; dell'art. 23, comma 19, per violazione dell'articolo 119 della Costituzione; dell'art. 23, comma 20, per violazione degli articoli 1, 3, 5 e 114 della Costituzione; dell'art. 27, per violazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione; dell'art. 31, comma I, per violazione degli articoli 114, 117, I e IV comma, 118 della Costituzione; dell'art. 35, per violazione degli articoli 3, 97, I comma, 113, I comma, della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione; dell'art. 44-bis, per violazione degli articoli 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione; Con istanza di sospensione dell'art. 23, commi da 14 a 20, e dell'art. 31, comma 1. Premessa. Il decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, contiene numerose disposizioni che contrastano con il quadro complessivo dell'autonomia territoriale cosi' come risultante dalla Costituzione e conseguentemente ledono il sistema costituzionale delle competenze riconosciute alla Regione. In particolare, l'art. 5 del decreto-legge prevede: «1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, entro il 31 maggio 2012, sono rivisti le modalita' di determinazione e i campi di applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) al fine di: adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonche' dei pesi dei carichi familiari, in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la capacita' selettiva dell'indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all'estero, al netto del debito residuo per l'acquisto della stessa e tenuto conto delle imposte relative; permettere una differenziazione dell'indicatore per le diverse tipologie di prestazioni. Con il medesimo decreto sono individuate le agevolazioni fiscali e tariffarie nonche' le provvidenze di natura assistenziale che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, non possono essere piu' riconosciute ai soggetti in possesso di un ISEE superiore alla soglia individuata con il decreto stesso. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sono definite le modalita' con cui viene rafforzato il sistema dei controlli dell'ISEE, anche attraverso la condivisione degli archivi cui accedono la pubblica amministrazione e gli enti pubblici e prevedendo la costituzione di una banca dati delle prestazioni sociali agevolate, condizionate all'ISEE, attraverso l'invio telematico all'INPS, da parte degli enti erogatori, nel rispetto delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, delle informazioni sui beneficiari e sulle prestazioni concesse. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. I risparmi derivati dall'applicazione del presente articolo a favore del bilancio dello Stato e degli enti nazionali di previdenza e di assistenza sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali per l'attuazione di politiche sociali e assistenziali. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, si provvede a determinare le modalita' attuative di tale riassegnazione». In questi termini, la norma prevede: a) l'emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, per la revisione delle modalita' di determinazione ed i campi di applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee); b) la definizione, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, delle modalita' con cui viene rafforzato il sistema dei controlli dell'Isee; c) la determinazione, sempre con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, delle modalita' di riassegnazione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali dei risparmi, derivanti dall'attuazione delle nuove norme, da destinare all'attuazione di politiche sociali e assistenziali. Nel prevedere una revisione dell'Isee, nella disposizione non si fa nessun cenno ad un'intesa con le Regioni o con la Conferenza unificata, cosi come non si prevede nulla in relazione alla possibilita' per gli enti erogatori di modulare diversamente gli indicatori. Si tratta di previsioni procedurali e sostanziali che erano state previste dalla disciplina attualmente in vigore - seppure emanata prima della riforma del Titolo V della Costituzione - che ha significativamente aumentato l'autonomia regionale nella materia della assistenza sociale. Gia' il decreto legislativo n. 130 del 2000, infatti, nel modificare il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, istitutivo dell'Isee, era stato emanato sentita la Conferenza unificata. Oltre a queste gravi omissioni, la stessa procedura da seguire appare alquanto anomala, dal momento che assegna ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che non viene nemmeno qualificato come di natura regolamentare, la forza di modificare una disciplina stabilita da fonti primarie. La previsione che i risparmi derivanti dall'attuazione delle nuove norme siano determinati con decreto ministeriale e riassegnati al Ministero del lavoro, infine, non sembra considerare minimamente la stretta interconnessione che esiste tra le politiche regionali in materia sociale e socio assistenziale che spesso hanno assunto, volontariamente o perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto come parametro. L'art. 23 del decreto-legge in oggetto ai commi 15, 16 e 17 trasforma la Provincia da ente politico rappresentativo della popolazione inclusa nell'ambito territoriale di riferimento a ente di secondo grado, i cui organi di governo sono identificati in un Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti eletti dai Consigli comunali e in un Presidente eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti. Per le modalita' di elezione si rinvia a una legge statale da emanare entro il 31 dicembre 2012. Per gli organi provinciali che vanno al rinnovo entro il 31 dicembre 2012 il comma 20 dell'art. 23 del decreto-legge dispone l'applicazione, sino al 31 marzo 2013, dell'art. 141 del decreto legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali». In questo modo - con alcuni commi di una disposizione di un decreto-legge, all'interno di un articolo alquanto eterogeneo, dove si tratta ad esempio della riduzione dei componenti del Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro e di altre Autorita' indipendenti - viene disciplinato un tema eminentemente costituzionale: in proposito, basta considerare il dibattito svolto dall'Assemblea costituente sulla soppressione delle Province come enti autonomi in relazione alla nascita delle Regioni. E' evidente che le Province sono state concepite dalla Costituzione come enti di governo locale, elettivi di primo grado, e che questa posizione e' stata confermata e rafforzata con la riforma del Titolo V, anzitutto nel nuovo art. 114 dove si prevede che «la Repubblica e' costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Citta' metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». La tecnica normativa utilizzata appare poi irragionevole dove disciplina il destino degli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno porre un'apposita disciplina, il comma 20 dell'art. 23 del decreto-legge rinvia all'art. 141 del T.u.e.l., che regolamenta ipotesi del tutto diverse da quella in oggetto. Tale disposizione, infatti, attiene a ben precise cause, riguardanti la dinamica patologica che puo' verificarsi in un ente territoriale quando un Consiglio provinciale compia atti contrari alla Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge; quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per: impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso o dimissioni del presidente della provincia; nel caso di cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purche' contemporaneamente presentati al protocollo dell'ente, della meta' piu' uno dei membri assegnati; nel caso di riduzione dell'organo assembleare per impossibilita' di surroga alla meta' dei componenti del consiglio; quando non sia approvato nei termini il bilancio. In questi casi i' consigli provinciali vengono sciolti con decreto presidenziale, su proposta del Ministro dell'interno; e con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto stesso. E' la dinamica patologica che si e' verificata nell'ente a giustificare il commissariamento, con la sospensione del potere dei soggetti democraticamente eletti. Nulla a che fare, quindi, con una ipotesi di scioglimento derivante dalla stessa previsione legislativa. La previsione del comma 14 dell'art. 23 del decreto impugnato stabilisce poi che «spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale e regionale, secondo le rispettive competenze». In questo modo vengono svuotate le funzioni amministrative delle Province e ridotte esclusivamente a funzioni di coordinamento dell'attivita' dei Comuni. Tale disposizione, oltre a porsi in contrasto con le previsioni degli art.117, II comma, lett. p), e 118, II comma, dove si afferma che le Province sono titolari di funzioni amministrative fondamentali e proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale, comprime indebitamente la competenza legislativa regionale che nelle materie di propria competenza, anche residuale, si trova limitata a poter trasferire solo funzioni di indirizzo e coordinamento, non potendo piu' configurarsi come il soggetto deputato a declinare i principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione come invece stabiliscono i primi due commi dell'art.118 della Costituzione. La previsione del comma 18 dell'art. 23 del decreto-legge rafforza poi la lesione delle competenze regionali, la' dove prevede che: «Lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato». Lo svuotamento delle funzioni fondamentali, proprie e conferite, previste dalla legislazione statale e regionale vigente, ai sensi degli articoli 117, II comma, lett. p) e 118, II comma, e' destinato ad avvenire - secondo la logica della disposizione - con legge statale o regionale, entro il 31 dicembre 2012, assegnando tali funzioni ai Comuni o alle Regioni. In questo modo, pero', la disposizione esclude che i principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione si possano riferire, al di fuori del mero coordinamento, alle Province e prevede un illegittimo intervento del potere sostitutivo statale nei confronti della Regione, oltretutto attivato dalla scadenza di un termine irragionevolmente breve. Il comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato, infine, dispone: «Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia». In sostanza, la disposizione prefigura uno scenario dove le Province, sostanzialmente svuotate dalle attuali funzioni amministrative, ricevono, dallo Stato e dalle Regioni, risorse solo per lo svolgimento del supporto di segreteria ai propri organi. In questi termini, la disposizione appare sostanzialmente contraddittoria rispetto al quadro dell'autonomia finanziaria provinciale disegnato dall'art. 119 della Costituzione e altera, essendo configurabile come norma statale di coordinamento della finanza pubblica, lo stesso rapporto dell'autonomia finanziaria regionale con quella provinciale e comunale. Tale rapporto viene infatti prefigurato in termini di finanza meramente derivata: alle leggi regionali si impone di trasferire risorse, non di configurare un'autonomia finanziaria. In sostanza, l'impianto normativo costituito dai commi da 14 a 20 dell'art. 23 del decreto impugnato appare da numerosi punti di vista in palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a creare gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti di costi maggiori dei risparmi che potrebbe produrre. La revisione o la razionalizzazione costituzionale dei livelli di governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro ritenersi opportuna, ma deve essere attuata con una legge di revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione e delle diverse soluzioni possibili, e con un adeguato dibattito. Soluzioni improvvisate, tecnicamente e economicamente discutibili, con aperti ed evidenti profili di incostituzionalita', creano guasti gravi ed irreparabili al sistema in termini di gestibilita' e di costi aggiuntivi. L'articolo 27 del decreto-legge contiene una nuova disciplina sulla valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che in piu' punti appare lesiva delle competenze costituzionali della Regione. In particolare, il comma I inserisce un nuovo articolo (33-bis) nel decreto-legge n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, prevedendo la facolta' per l'Agenzia del Demanio di costituire societa', consorzi e fondi immobiliari per la valorizzazione del patrimonio pubblico, anche se appartenente a Regioni, Province e Comuni. Dispone inoltre che «Qualora le iniziative di cui al presente articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano i soggetti apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e di struttura tecnica di supporto», assegnando poi all'Agenzia del demanio un ruolo determinante nell'individuare, «attraverso procedure di evidenza pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti» e prevedendo che la stessa Agenzia, «possa avvalersi di soggetti specializzati nel settore, individuati tramite procedure ad evidenza pubblica o di altri soggetti pubblici». L'Agenzia del demanio in questi termini viene ad assumere un ruolo determinante, in violazione degli articoli 118, I e II, comma e 119, ultimo comma, della Costituzione, comma 7 del nuovo articolo 33-bis poi, modifica i commi l e 2 del decreto-legge n. 112 del 2008, cosi' come convertito dalla legge n. 133 del 2008, prevedendo per le Regioni che queste «entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione» debbano disciplinare «l'eventuale equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di approvazione quale variante allo strumento urbanistico generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, anche disciplinando le procedure semplificate per la relativa approvazione». Dispone inoltre: «Le Regioni, nell'ambito della predetta normativa approvano procedure di copianificazione per l'eventuale verifica di conformita' agli strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla deliberazione comunale. Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Le varianti urbanistiche di cui al presente comma, qualora rientrino nelle previsioni di cui al paragrafo 3 dell'articolo 3 della direttiva 2001/42/CE e al comma 4 dell'articolo 7 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e s.m.i. non sono soggette a valutazione ambientale strategica». Tale previsione si pone in aperto contrasto con la competenza costituzionalmente riconosciuta alla Regione nella misura in cui stabilisce un termine decisamente ridotto per le modifiche normative e prevede poi, una volta decorso tale termine, l'applicazione del comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato inserisce poi un nuovo articolo nel decreto-legge n. 351 del 2001, cosi' come convertito dalla legge n. 410 del 2001, disciplinando il processo di valorizzazione degli immobili pubblici. Prevede che il Presidente della Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova «la sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi dell'articolo 34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 nonche' in base alla relativa legge regionale di regolamentazione della volonta' dei soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione di detti strumenti di pianificazione, al quale partecipano tutti i soggetti, anche in qualita' di mandatari da parte degli enti proprietari, che sono interessati all'attuazione del programma. 7. Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo' essere attribuita agli enti locali interessati dal procedimento una quota compresa tra il 5% e il 15% del ricavato della vendita degli immobili valorizzati se di proprieta' dello Stato da corrispondersi a richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o in parte, anche come quota parte dei beni oggetto del processo di valorizzazione. Qualora tali immobili, ai fini di una loro valorizzazione, siano oggetto di concessione o locazione onerosa, all'Amministrazione comunale e' riconosciuta una somma non inferiore al 50% e non superiore al 100% del contributo di costruzione dovuto ai sensi dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e delle relative leggi regionali per l'esecuzione delle opere necessarie alla riqualificazione e riconversione, che il concessionario o il locatario corrisponde all'atto del rilascio o dell'efficacia del titolo abilitativo edilizio». Tale norma, nella parte in cui prevede una disciplina di dettaglio vincolante nella determinazione dei contenuti dell'accordo di programma, appare in contrasto con l'autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione. L'articolo 31, comma 1, dispone: «1 . In materia di esercizi commerciali, all'articolo 3, comma l, lettera d-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: "in via sperimentale" e dopo le parole "dell'esercizio" sono soppresse le seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte"». Modifica cosi' il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera d-bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente noto come decreto Bersani). A seguito della modifica introdotta, la disposizione al punto d-bis) e' stata riformulata nei termini seguenti: «d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale». In questo modo, sono stati eliminati, in via generale ed assoluta, i limiti e le prescrizioni relativi agli orari di apertura e chiusura, alla chiusura domenicale e festiva e (parziale) infrasettimanale degli esercizi commerciali, inclusi quelli di somministrazione di alimenti e bevande. La disposizione cosi' riformulata, nella sua assolutezza e inderogabilita', lede la competenza legislativa regionale in materia di commercio, violando gli articoli 117, I e IV comma, della Costituzione, nonche' la potesta' regionale connessa all'esercizio delle funzioni amministrative di cui all'art. 118, I e II comma, della Costituzione; appare altresi' incompatibile con il principio di equiordinazione di cui all'art. 114 della Costituzione medesima. L'articolo 35, I comma, dispone: «I. L'Autorita' garante della concorrenza e del mercato legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. 2. L'Autorita' garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'Autorita' puo' presentare, tramite l'Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni. 3. Ai giudizi instaurati ai sensi del comma l si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.». In questi termini. la norma viene a conferire all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato il potere di emettere un parere motivato in ordine ad ogni provvedimento proveniente da qualsivoglia pubblica amministrazione che contenga presunte violazioni delle norme poste a tutela della concorrenza e del mercato. Contestualmente, la medesima norma attribuisce alla stessa Autorita' la legittimazione attiva ad impugnare, per il tramite della Avvocatura dello Stato, i provvedimenti interloquiti e non adeguati nei termini imposti. La norma censurata, modificando la legge n. 287 del 1990, configura una surrettizia introduzione della figura del Pubblico Ministero nel processo amministrativo, contrastante con la sua natura strutturale di giurisdizione soggettiva, e inoltre introduce una nuova surrettizia modalita' di controllo sugli atti delle Regioni, che si pone in contrasto con la legge costituzionale n. 3/2001 abrogativa dei controlli sugli atti regionali a suo tempo previsti dall'art. 125 della Costituzione. L'articolo 44-bis dispone: «I. Ai sensi del presente articolo, per «opera pubblica incompiuta» si intende l'opera che non e' stata completata: a) per mancanza di fondi; b) per cause tecniche; c) per sopravvenute nuove norme tecniche o disposizioni di legge; d) per il fallimento dell'impresa appaltatrice; e) per il mancato interesse al completamento da parte del gestore. 2. Si considera in ogni caso opera pubblica incompiuta un'opera non rispondente a tutti i requisiti previsti dal capitolato e dal relativo progetto esecutivo e che non risulta fruibile dalla collettivita'. 3. Presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e' istituito l'elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute. 4. L'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e' articolato a livello regionale mediante l'istituzione di elenchi-anagrafe presso gli assessorati regionali competenti per le opere pubbliche. 5. La redazione dell'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e' eseguita contestualmente alla redazione degli elenchi-anagrafe su base regionale, all'interno dei quali le opere pubbliche incompiute sono inserite sulla base di determinati criteri di adattabilita' delle opere stesse ai fini del loro riutilizzo, nonche' di criteri che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni singola opera. 6. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti stabilisce, con proprio regolamento, le modalita' di redazione dell'elenco-anagrafe, nonche' le modalita' di formazione della graduatoria e dei criteri in base ai quali le opere pubbliche incompiute sono iscritte nell'elenco-anagrafe, tenendo conto dello stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al completamento. 7. Ai fini della fissazione dei criteri di cui al comma 5, si tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato e alle regioni». Tale disposizione prevede l'istituzione presso il Ministero competente, di un elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute, ma lo articola anche presso l'Amministrazione regionale ai fini del coordinamento dei dati. Lo fa tuttavia con una regolamentazione di dettaglio che appare lesiva dell'autonomia organizzativa regionale, costituzionalmente tutelata. Motivi 1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 5, per violazione degli articoli 3, 117, III e IV comma; 118, I e II comma; 119 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni di cui all'art. 120 della Costituzione. La disposizione dell'art. 5 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011 n. 214, prevede al primo comma che con un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, siano riviste le modalita' di determinazione ed i campi di applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (Isee). Al riguardo, va rilevato che la recente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, n. 1607/2011) ha fatto rientrare l'Isee nella materia dei livelli essenziali delle prestazioni, richiamando la legge n. 328/2000 che all'art. 25 dispone: «ai fini dell'accesso ai servizi disciplinati dalla presente legge, la verifica della condizione economica del richiedente e' effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, come modificato dal decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130.». Va pero' rilevato come la disciplina attuale contenga anche previsioni che consentono alle Regioni di integrare i criteri stabiliti (ad esempio, l'art. 3 del d.lgs. n. 130/2000 dispone che: «gli enti erogatori, ai quali compete la fissazione dei requisiti per fruire di ciascuna prestazione, possono prevedere, ai sensi dell'articolo 59, comma 52, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, accanto all'indicatore della situazione economica equivalente, come calcolato ai sensi dell'articolo 2 del presente decreto, criteri ulteriori di selezione dei beneficiari»). Va anche considerato come la disciplina attuale, in particolare lo stesso decreto legislativo n. 130 del 2000, nel modificare il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, istitutivo dell'Isee, sia stato emanato, sebbene anteriore alla riforma del Titolo V della Costituzione, dopo che era stato acquisito il parere della Conferenza unificata. Va infatti evidenziato che il criterio dell'Isee e' utilizzato nella legislazione regionale per definire l'accesso a prestazioni come asili nido e altri servizi educativi per l'infanzia, mense scolastiche, servizi socio-sanitari domiciliari, servizi socio-sanitari diurni, residenziali, ecc. ed altre prestazioni economiche assistenziali. Se da questo punto di vista la materia dell'Isee, in base al diritto vivente, tende ad essere inquadrata nella competenza statale sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali, va pero' richiamata la sentenza n. 88 del 2003 di codesta ecc.ma Corte, dove si precisa: «L'inserimento nel secondo comma dell'art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformita' di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto. La conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regioni e delle Province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovra' inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori». Si specifica quindi: «Anche a voler prescindere dal problema relativo alla ulteriore utilizzabilita' dell'art. 118 del d.P.R. n. 309 del 1990 alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione ed in particolare del terzo e del sesto comma dell'art. 117 Cost., risulta evidente che la violazione dello specifico procedimento di consultazione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e quindi del principio di leale collaborazione, rendono illegittima la compressione dei poteri delle Regioni e delle Province autonome (fra le molte, si vedano le sentenze n. 39 del 1984, n. 206 del 1985, n. 116 del 1994)». Nel settore sanitario, ad esempio, per giungere alla definizione dei livelli essenziali di assistenza il procedimento di adozione prevede espressamente il coinvolgimento delle Regioni attraverso la previa intesa con il Governo. Il rispetto del principio di leale collaborazione costituisce quindi uno degli aspetti piu' consolidati del cammino giurisprudenziale sui livelli essenziali delle prestazioni, che ha sempre valorizzato la portata di tale principio, assumendolo - talvolta anche nell'accezione «forte» dell'intesa (ad esempio nella sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 134/2006) - quale uno dei fattori di legittimazione costituzionale dell'intervento statale che, pur fondato su un titolo di competenza proprio, incide su ambiti di rilevanza legislativa regionale. Non va poi dimenticato che nel caso di specie non sussistono quei particolari presupposti di necessita', ravvisati nella sentenza n. 10 del 2010, affinche' il diritto costituzionale all'assistenza non resti ineffettivo in un periodo di difficile congiuntura economica e, di conseguenza, si garantiscano ai suoi titolari, in condizioni di uniformita' su tutto il territorio nazionale, i «mezzi adeguati» ad un'esistenza dignitosa. Anzi, nel caso qui in esame e' opportuno richiamare piuttosto la precisa indicazione data da codesta ecc.ma Corte proprio nella sentenza n. 10 del 2010, quando ha specificato: «che, una volta cessata la situazione congiunturale che ha imposto un intervento di politica sociale esteso alla diretta erogazione della provvidenza, dagli strumenti di coinvolgimento delle regioni e delle province autonome non si possa prescindere, avendo cura cosi' di garantire anche la piena attuazione del principio di leale collaborazione, nell'osservanza del riparto delle competenze definito dalla Costituzione». Nel caso di specie, se si puo' ritenere sussistente una situazione di emergenza economica, l'oggetto e' profondamente diverso da quello relativo alla sentenza n. 10 del 2010, dal momento che non si tratta piu' di una norma indirizzata a istituire uno strumento diretto di intervento come la carta acquisti a favore delle persone bisognose, la cui caducazione avrebbe esposto queste ultime. Si tratta bensi' di una disposizione rivolta a rivedere un criterio di carattere strumentale alla definizione dei requisiti di accesso a una pluralita' di prestazioni che ineriscono alla competenza regionale anche residuale. Ne consegue che deve ritenersi indebitamente violato, nel caso dell'art. 5 del decreto impugnato, il principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. non essendo stata prevista la previa intesa con le Regioni, con conseguente ulteriore vulnus agli articoli 118, I e II comma (difettando anche i presupposti della chiamata in sussidiarieta') e 119 della Costituzione, dal momento che non si' considera come le Regioni abbiano assunto, volontariamente o perche' tenute a farlo, l'indicatore in oggetto come parametro per le loro politiche sociali e socio sanitarie. La suddetta incostituzionalita', in relazione ai medesimi parametri, si estende anche a quella parte dell'art. 5 del decreto-legge impugnato dove si prevede che i risparmi a favore dello Stato e degli enti nazionali di assistenza e di previdenza derivanti dalla attuazione delle nuove norme siano, secondo i criteri stabiliti da un decreto ministeriale e senza intesa con le Regioni, riassegnati al Ministero del lavoro, dal momento che la disposizione - pur riferendosi a risparmi «statali» - non sembra considerare minimamente la stretta interconnessione che comunque esiste con le politiche regionali in materia sociale e socio assistenziale. La rimodulazione delle risorse che lo Stato impegna nel territorio regionale determina infatti una ricaduta sulle politiche sociali e socio assistenziali delle Regioni, che dovrebbero quindi essere comunque coinvolte, tramite intesa. anche nel processo di riallocazione dei risparmi ottenuti. A questi si aggiunge un ulteriore distinto profilo di illegittimita' costituzionale. L'art. 5, infatti, concretizza una delegificazione «spuria» della materia contenuta nella attuale disciplina legislativa dell'Isee. Non solo la norma dell'art. 5 non stabilisce, tra i principi generali, la possibilita' per le Regioni, come e' nella disciplina attuale, di integrare i criteri, ma attua un sostanziale procedimento di delegificazione al di fuori della previsione dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988 (ritenuto dalla dottrina quasi unanime come rispettoso del principio di legalita', nella misura in cui e' alla legge di delegificazione che deve essere imputato l'effetto abrogativo, mentre il regolamento determina semplicemente il termine iniziale di questa abrogazione); senza nemmeno indicare, inoltre, le disposizioni legislative da abrogare, e con un atto che non viene qualificato come regolamentare. Di fatto, nella struttura dell'art. 5 si realizza una delegificazione spuria della normativa primaria oggi in vigore. Va ricordato al riguardo che codesta ecc. ma Corte nella sentenza n. 301 del 2003 ha gia' dichiarato l'incostituzionalita' di una disposizione legislativa che autorizzava una delegificazione in favore di un regolamento ministeriale, non solo per la mancata indicazione delle «norme generali regolatrici della materia», ma anche in riferimento all'individuazione della fonte autorizzata. Oltre che per violazione del principio di leale collaborazione, a causa della mancata previsione dell'intesa, l'art. 5 del decreto impugnato incorre quindi in un vizio di eccesso di potere legislativo/irragionevolezza, censurabile dalla Regione ai sensi dell'art. 3 della Costituzione dal momento che realizza una surrettizia violazione dell'art. 117, III e IV comma, in forza della incisione che questo processo di delegificazione opera sulle competenze regionali concorrenti e residuali. 2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da 14 a 20, per violazione: quanto al comma 14, degli articoli 118, I e II, comma, della Costituzione; quanto al comma 15, degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione; quanto al comma 16, degli articoli 1, 5, 114, 138 della Costituzione; quanto al comma 17, degli articoli 3, 5 e 114 della Costituzione; quanto al comma 18, degli articoli 118, I e II comma e 120 della Costituzione; quanto al comma 19, dell'articolo 119 della Costituzione; quanto al comma 20, degli articoli 1, 3, 5 e 114 della Costituzione. L'art. 23 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011 n. 214, con le disposizioni poste ai commi da 14 a 20 trasforma la Provincia, da ente politico rappresentativo della popolazione inclusa nell'ambito territoriale di riferimento, ad ente di secondo grado, con un Consiglio provinciale composto da non piu' di dieci componenti eletti dai Consigli comunali e con un Presidente eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti. La Provincia viene poi spogliata di ogni funzione amministrativa di tipo gestionale, potendo essere titolare solo di una micro funzione di coordinamento dell'attivita' dei Comuni. Infine, viene sostanzialmente svuotata della propria autonomia finanziaria, potendo disporre solo delle risorse relative al supporto di segreteria dei propri organi. La Provincia perde cosi' la propria autonomia politica, la propria autonomia amministrativa e la propria autonomia finanziaria. Il contrasto sostanziale con il disegno costituzionale - come si vedra' analiticamente di seguito - e' macroscopico. In questo modo, viene menomata la stessa autonomia regionale, privata dalla norma statale di un interlocutore istituzionale direttamente rappresentativo della popolazione, con una propria autonomia e responsabilita' finanziaria, cui poter affidare la gestione di funzioni amministrative, specialmente in Regioni come il Veneto dove il tessuto territoriale e' costituito da Comuni di piccole o piccolissime dimensioni (ad esempio, in Veneto il 54% dei Comuni e' sotto i 5.000 abitanti). In questi termini, e soprattutto in queste situazioni, la norma statale tende a favorire la concentrazione delle funzioni amministrative attive nella Regione - e quindi induce un centralismo regionale - senza piu' permettere alla Regione stessa di sviluppare un regionalismo pienamente attuativo del principio di sussidiarieta'. Si viene cosi' a menomare la stessa autonomia statutaria (gia' lo Statuto del Veneto del 1971 prevedeva che le funzioni amministrative fossero normalmente esercitate delegandole non solo ai Comuni, ma anche alle Province), che ben potrebbe configurare la Regione come organo piu' di legislazione e di indirizzo che di amministrazione diretta. Non si mette in discussione, in questa sede, l'opportunita' di una seria razionalizzazione dell'attuale assetto istituzionale del sistema delle autonomie locali, in particolare delle Province, ma si ritiene che quel processo meriti di essere progettato insieme con gli Enti territoriali ed attuato con appropriati strumenti giuridici, cosi che risulti veramente funzionale a realizzare un piu' efficiente modello organizzativo e una migliore allocazione delle risorse, con effettiva riduzione dei costi, anche politici. Si rileva e lamenta, al contrario, la inidoneita' delle disposizioni censurate - nella loro forza giuridica e nei loro contenuti - a realizzare effettivamente l'obiettivo dichiarato. Esse, alterando il quadro costituzionale, senza cogliere l'obiettivo dell'auspicata semplificazione del sistema istituzionale, ne determinano anzi una complessiva complicazione. Non ottengono in realta' neppure il risultato di una riduzione della spesa e dei costi degli apparati (cui fa riferimento il titolo dell'articolo in cui sono inserite le disposizioni impugnate): e' significativo che la relazione tecnica - estremamente sintetica - che accompagna il provvedimento non abbia potuto quantificare la misura dei risparmi complessivamente perseguibili alla fine di un processo di riordino configurato in questi termini. Le norme che si censurano sono destinate invece a produrre indebiti costi aggiuntivi diretti (si pensi all'inquadramento del personale, che verra' trasferito al livello regionale) e indiretti (si pensi alla difficilissima gestibilita' di tutte quelle situazioni dove, a fronte di Province che hanno una dimensione territoriale ben piu' ampia di quella di alcune Regioni, contesto territoriale di riferimento e' costituto da una pluralita' di Comuni «polvere» di piccole o piccolissime dimensioni). Mediante una legge ordinaria, quindi, si pretende di compiere una vera e propria revisione costituzionale, incidendo radicalmente sul complessivo impianto costituzionale e su specifiche disposizioni, e di qui anche sull'autonomia costituzionalmente garantita alla Regione. La Regione del Veneto e' dunque legittimata a tutelare davanti a codesta ecc.ma Corte le proprie prerogative costituzionali, che sono lese anche direttamente e nell'attualita' dalle disposizioni legislative statali censurate. Per di piu', codesta ecc.ma Corte in piu' occasioni (sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005, n. 196 del 2004 e n. 533 del 2002) ha ritenuto che le Regioni siano legittimate a denunciare la legge statale anche per la violazione di competenze degli enti locali, perche' «la stretta connessione [...] tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali». Ad integrazione di queste considerazioni d'insieme sul complessivo impianto dei commi censurati, si passa ora ad una illustrazione analitica dei singoli profili di incostituzionalita', comma per comma. Si seguira' nell'esposizione un ordine espositivo diverso da quello numerico, per prendere in considerazione in modo unitario aspetti tra loro logicamente connessi. 2.1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 16. La disposizione dell'art. 23, comma 16, prevede il venir meno - per volonta' di una fonte primaria e percio' senza utilizzare il procedimento di revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost. - della Provincia come ente esponenziale rappresentativo di una comunita' territoriale che si organizza democraticamente, secondo l'art. l Cost., con organi elettivi di diretta emanazione del corpo elettorale. E' evidente che le Province sono state previste - riconosciute - dalla Costituzione come enti di governo locale elettivi e che questa scelta e' stata confermata e soprattutto rafforzata dalla riforma del Titolo V, che le ha configurate quali «enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione» (art. 114, II comma, Cost.), destinate a costituire proprio in tale veste - assieme ai Comuni, alle Citta' metropolitane e alle Regioni - la Repubblica (art. 114, I Comma). Lo stesso principio autonomista di cui all'art. 5 della Costituzione, prevedendo che «la Repubblica, una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», impedisce al legislatore ordinario di incidere in via definitiva sul carattere direttamente democratico dell'ente, che rappresenta uno dei requisiti essenziali dell'ordinamento repubblicano. Il principio autonomista implica il principio democratico: e' quest'ultimo che richiede che il popolo abbia una rappresentanza che emerga da elezioni generali, dirette, libere, uguali e segrete e che la rappresentanza abbia una consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo, l'espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la governabilita'; in secondo luogo, la capacita' di indirizzo e controllo da parte della rappresentanza medesima sull'ente. E' utile al riguardo rimarcare che codesta ecc.ma Corte nella sentenza n. 165/2002 ha precisato: «si deve in proposito osservare che il legame Parlamento-sovranita' popolare costituisce inconfutabilmente un portato dei principi' democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una relazione di identita', sicche' la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranita' popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a plasmarne l'essenza, non puo' essere condivisa nella sua assolutezza». E ancora: «Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse [le idee sulla democrazia, sulla sovranita' popolare e sul principio autonomistico] ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare». Ne' sembra possibile sostenere che la rappresentativita' indiretta configurata dalla disposizione impugnata risponda, nel caso delle Province, alla stessa caratura democratica derivante da una elezione popolare. Si tratterebbe di un argomento non privo di rilevanti conseguenze, dal momento che tutti gli enti elencati dall'art. 5, Cost. sono posti dalla Costituzione sullo stesso piano, quanto a garanzie di autonomia politica. Ad ammetterlo, ne deriverebbe infatti la legittimita' di una legge statale che stabilisse come principio fondamentale, ai sensi dell'art. 122 Cost., anche per i Consigli regionali un meccanismo del tipo di quello previsto dalla disposizione impugnata. O che prevedesse che i Consigli comunali siano composti da eletti tra i consigli di quartiere, ad esempio. La disposizione del comma 16 dell'art. 23 del decreto impugnato viola pertanto gli articoli 1, 5, 114, 138 della Costituzione. E' opportuno precisare che questi profili di incostituzionalita' hanno una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale. Quello delle autonomie territoriali configurato dalla Costituzione e' un vero e proprio sistema (si' veda in questi termini gia' la sentenza n. 343 del 1991 di codesta ecc.ma Corte), per cui l'alterazione della struttura essenziale e costitutiva di uno di questi enti si riflette inevitabilmente sugli altri, menomandone la sfera di competenza. Nel caso di specie la Regione risulta, ad esempio, menomata nell'esercizio del proprio potere di attuare pienamente i principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione nell'allocare le funzioni amministrative nelle materie di propria competenza, ai sensi degli articoli 118, I e II comma, della Costituzione. Assume, infatti, un rilievo politico e istituzionale profondamente diverso allocare le funzioni amministrative all'ente Provincia cosi' come configurato dal disegno costituzionale prima ricordato, piuttosto che allocarle a un ente privo di rappresentativita' diretta delle popolazioni interessate. Ad esempio, in materia urbanistica, la Regione Veneto ha assegnato (legge regionale n. 11 del 2004) alle Province competenza a provvedere alla pianificazione territoriale per il governo del territorio (artt. 22-24), nonche' la competenza ad approvare i piani comunali di assetto del territorio (artt. 14 e 15). Tali assegnazioni di competenze si fondano sulla struttura direttamente rappresentativa della Provincia e sulla possibilita' del diretto controllo democratico del cittadino elettore (che viene meno nella disposizione impugnata). 2.2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 20. Per gli organi provinciali che vanno al rinnovo entro il 31 dicembre 2012, il comma 20 dell'art. 23 del decreto impugnato dispone l'applicazione, sino al 31 marzo 2013, dell'art. 141 del decreto legislativo n. 267/2000 relativo a «Scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali». La tecnica normativa utilizzata appare irragionevole laddove disciplina il destino degli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012: senza nemmeno un'apposita disciplina, si rinvia all'art. 141 del T.u.e.l. che regolamenta ipotesi del tutto diverse da quella in oggetto. Tale disposizione, infatti, attiene a ben precise cause che riguardano la dinamica patologica che puo' verificarsi in un ente territoriale dove un Consiglio Provinciale compia, ad esempio, atti contrari alla Costituzione o gravi e persistenti violazioni di legge o quando non sia approvato nei termini il bilancio. In questi casi i consigli provinciali vengono sciolti con d.P.R., su proposta del Ministro dell'interno e con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina di un commissario, che esercita le attribuzioni conferitegli con il decreto stesso. E' evidente nella ratio della disciplina che a giustificare il commissariamento e' la dinamica patologica che si e' verificata nell'ente, con la sospensione del potere dei soggetti democraticamente eletti. Nulla a che fare quindi con un'ipotesi di scioglimento imputabile alla mera volonta' legislativa di riordino dell'ente Provincia. E in questi termini si evidenzia quindi un sintomo di irragionevolezza della disciplina. La disposizione del comma 20 si pone quindi in contrasto l'art. 3 Cost. in termini di ragionevolezza, in quanto prevede il commissariamento delle Province che dovrebbero andare al voto nel 2012 rinviando a una norma pensata per altre ipotesi di scioglimento dei consigli e non applicabile in questo caso; inoltre, prevedendo il commissariamento delle Province che dovrebbero andare al voto nel 2012, in vista della eliminazione dell'elezione diretta popolare, si pone anch'essa in violazione degli articoli l, 5 e 114 della Costituzione. L'eliminazione dell'elezione diretta popolare e' prevista, alla scadenza naturale, anche per quegli organi provinciali che sono soggetti a rinnovo dopo il 31 dicembre 2012. La seconda e la terza proposizione del medesimo comma 20 rinviano infatti ai commi 16 e 17 per la elezione dei nuovi organi provinciali. Anche per questa parte si ravvisa percio' violazione degli articoli 1, 5 e 114 della Costituzione. Quanto alla legittimazione delle Regioni ad impugnare, essa deriva da una menomazione delle competenze regionali per gli stessi motivi indicati in relazione al comma 16 nel punto precedente (2.1). 2.3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 15. Il comma 15 dell'art. 23 - apparentemente ammissibile, in quanto l'ordinamento degli enti locali rientra nelle competenze del legislatore statale previste dall'art. 117, comma 2, lettera p) - in realta' menoma la capacita' di azione e di esecuzione delle Province ed e' palesemente in contrasto con l'assetto storico degli enti locali territoriali che hanno avuto nella Giunta l'organo collegiale di esecuzione delle deliberazioni consiliari. Ne' la disposizione lascia intendere attraverso quali meccanismi lo stesso Presidente di un ente, che rimane comunque titolare di funzioni di area vasta, possa operare. Per di piu', configura una irragionevole alterazione del sistema ordinamentale organicamente disegnato dal d.lgs. n. 267/2000, Testo unico degli enti locali, presidiato dalla clausola (art. l, comma IV) di inderogabilita' «se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni». La disposizione al comma 15 viola pertanto l'art. 3 Cost., per irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e 114 della Costituzione. Anche in questo caso il profilo di incostituzionalita' ha, per i motivi esplicitati nei punti precedenti, una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale, che ne risulta menomata. 2.4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 17. Il comma 17 dell'art. 23 del decreto impugnato, apparentemente riconducibile alle competenze della legislazione statale, viola in realta' gli stessi articoli indicati nel punto precedente (art.3 della Costituzione, per irragionevolezza, nonche' gli articoli 5 e 114 della Costituzione) per illegittimita' costituzionale derivata, per le modalita' con cui e' costituito il Consiglio provinciale chiamato a effettuare l'elezione. Anche in questo caso il profilo di incostituzionalita' ha, per i motivi esplicitati nei punti precedenti, una ricaduta diretta sulla sfera di competenza regionale, che risulta menomata. 2.5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 14. l profili di incostituzionalita' diventano ancora piu' evidenti nella previsione del comma 14 dell'art. 23 del decreto impugnato, dove si stabilisce che «Spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale e regionale, secondo le rispettive competenze». Tale disposizione, oltre a comportare un'ingiustificata e inammissibile sovraordinazione delle Province rispetto ai Comuni, si pone in contrasto con le previsioni costituzionali che riconoscono le Province come titolari di un'importante dimensione di funzioni amministrative (fondamentali e proprie, oltre a quelle conferite con legge statale o regionale). In base ad esse, le Province gestiscono oggi funzioni amministrative di carattere materiale che intervengono in ambiti di particolare significato. Una prima e provvisoria individuazione delle funzioni fondamentali, sebbene ai soli fini dell'attuazione della delega, e' peraltro avvenuta per effetto dell'art. 21, comma 4, della legge n. 42 del 2009 (istruzione pubblica; trasporti locali; gestione del territorio; tutela ambientale; sviluppo economico; mercato del lavoro). Soprattutto, la disposizione del comma 14 dell'art. 23 del decreto impugnato menoma indebitamente la competenza legislativa e in genere la sfera di autonomia della Regione che, nelle materie di propria competenza, si vede preclusa la possibilita' di trasferire o delegare qualsiasi funzione alle Province, nonostante la specifica caratterizzazione del proprio territorio e dei relativi assetti istituzionali. Ad esempio, risulta preclusa all'autonomia legislativa regionale la possibilita' di una scelta come quella effettuata nella legge regionale n. 11 del 2001 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle autonomie locali in attuazione del decreto legislativo 31 marzo 1998, n_ 112), all'art. 5, di assegnare alle Province, oltre che funzioni di coordinamento, anche «funzioni di tipo gestionale in riferimento agli interessi relativi a vaste zone intercomunali o all'intero territorio provinciale». Per converso, potrebbe desumersi dalla disposizione del comma 14 addirittura un obbligo di assegnazione esclusiva alle Province delle competenze ivi indicate, con un'ulteriore compressione dell'autonomia regionale. In tal modo, la Regione non puo' piu', come invece stabiliscono i primi due commi dell'art.118 della Costituzione, configurarsi come il soggetto titolare del potere di declinare con propria legge - e quindi con una propria autonoma decisione in relazione alle precipue caratteristiche del proprio ambito territoriale - nelle materie di propria competenza, in modo pieno, i' principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione in relazione alle funzioni amministrative. La disposizione al comma 14 e' percio' in palese contrasto con l'art. 118, I e II comma, Cost. 2.6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 18. La previsione del comma 18 dell'art. 23 del decreto impugnato rafforza la lesione delle competenze regionali, dove prevede che: «Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato». In sostanza, la disposizione, ribadendo in termini operativi quanto previsto dal comma 14, esclude che la Regione possa declinare, nelle materie di propria competenza, i principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione, al di fuori delle funzioni di mero coordinamento, a favore delle Province, trovandosi indebitamente limitata nella propria competenza ed autonomia. Cosi', se la Regione volesse assumere un ruolo maggiormente incentrato sullo svolgimento delle funzioni legislative e meno su quello della gestione delle funzioni amministrative, in presenza di un contesto territoriale caratterizzato da una prevalenza di Comuni di piccole o piccolissime dimensioni, non potrebbe piu' valorizzare il ruolo delle Province nello svolgimento delle funzioni amministrative, nonostante reputi questo conforme ai principio di adeguatezza e di differenziazione. Al fine di evidenziare ulteriormente il contrasto di questa situazione - che favorisce quindi un forte centralismo regionale - con il disegno costituzionale, appare utile ricordare quanto affermava codesta ecc.ma Corte gia' nella sentenza n. 343 del 1991, allorche' valorizzava l'intento - di assicurare un sempre maggiore avvicinamento di queste funzioni alle realta' locali, sia allo scopo di evitare il formarsi di una burocrazia a livello regionale, ripetitiva di quella dell'amministrazione statale accentrata che, appunto, con l'ordinamento regionale e con la sua ulteriore articolazione a livello locale, la Costituzione tende a superare». Inoltre, la disposizione impugnata prevede un illegittimo intervento del potere sostitutivo statale nei confronti della Regione, dal momento che non e' configurabile un'esigenza di tutelare l'unita' giuridica o economica (che appaiono gli unici parametri, tra quelli previsti dall'art. 120 Cost., che potrebbero essere riferiti al caso di specie) in relazione a una previsione palesemente incostituzionale; lo stesso rinvio all'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, appare configurato in termini irragionevoli, dal momento che la procedura indicata nel comma 18 dell'art. 23 qui impugnato e' diversa da quella ben piu' concertativa contenuta nel suddetto art. 8. Oltretutto, il potere sostitutivo statale consisterebbe, nella specie, nel potere del Governo di intervenire, ove non fossero emanate le leggi regionali imposte dalla prima parte del comma 18, sostituendosi al consiglio regionale nella sua funzione di legislatore, perfino nelle materie di competenza regionale esclusiva. La disposizione si pone pertanto in contrasto con gli articoli 118, I e II comma, e 120 della Costituzione. 2.7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 19. Il comma 19 del decreto impugnato dispone: «Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia». La disposizione e' di fatto collegata al precedente comma 18, disciplinando la riallocazione delle risorse conseguente allo svuotamento delle funzioni, e riflette percio' in via derivata la ritenuta illegittimita' costituzionale del comma 18. Inoltre, essa - costruita riproponendo la tecnica normativa a suo tempo utilizzata riguardo al cd. decentramento amministrativo operato con il d.lgs. n. 112 del 1998 e quindi anteriormente all'attuale art. 119 Cost. - si pone in palese violazione dell'art. 119 della Costituzione, dove invece si prevede che le Province, cosi' come gli altri Enti territoriali, abbiano «autonomia finanziaria di entrata e di spesa»; nonche' che dispongano di «risorse autonome», potendo stabilire e applicare «tributi e entrate proprie in armonia con la Costituzione e con i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; che dispongano di «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio»; che esista un «fondo perequativo»; che tali fonti tributarie «consentano di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»; che solo per rimuovere particolari squilibri o per «scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» lo Stato possa ritornare a una finanza di trasferimento. Ogni riferimento all'autonomia finanziaria delle Province e' infatti scomparsa dal comma 19 dell'art. 23 del decreto impugnato. Questo dato va preso in considerazione anche in relazione alla normativa vigente, recentemente riordinata dal decreto legislativo n. 68 del 2011 (relativo alla autonomia finanziaria delle Regioni e delle Province): l'autonomia finanziaria delle Province si fonda, infatti, su compartecipazioni a tributi erariali (come la compartecipazione all'irpef), su tributi propri derivati (ad esempio l'imposta sulle assicurazioni contro la responsabilita' civile e l'imposta provinciale di trascrizione), su una imposta di scopo provinciale, e solo in parte residuale su trasferimenti statali o regionali, anch'essi peraltro destinati ad essere sostituiti - in base alle disposizioni del d.lgs. n. 68/2011 -, entro precisi termini, con compartecipazioni a tributi erariali o regionali, in modo da superare i difetti e i problemi della cd. finanza derivata, che ha prodotto nel nostro sistema evidenti effetti deresponsabilizzanti. Tutto questo quadro, attuativo dell'art. 119 della Costituzione, e' ignorato dalla disposizione impugnata. D'altra parte, l'esiguita' delle funzioni amministrative assegnate alle Province (mero coordinamento, senza piu' alcuna attivita' gestionale) e l'entita' delle risorse riconosciute (funzionali solo a garantire il necessario supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia) si dimostra difficilmente compatibile con il quadro finanziario disegnato dalla Costituzione, a ulteriore riprova di una sostanziale incompatibilita' del disegno dell'art. 23 del decreto impugnato (commi da 14 a 20) con quello costituzionale. Non risulta neppure chiaro come il comma 19 del decreto impugnato - e cio' appare anche un chiaro sintomo di irragionevolezza - a fronte del fortissimo ridimensionamento delle funzioni provinciali, possa gestire il passaggio sul piano del finanziamento, dal momento che si tratta di passare da un finanziamento che supera i dieci miliardi di euro (derivante dalle funzioni di amministrazione attiva, come ad esempio quelle attinenti alle strade) a quello molto ben piu' limitato di mere «funzioni di supporto di segreteria per l'operativita' degli organi provinciali». Da questo punto di vista, per quanto riguarda le competenze statali, il riferimento al mero «trasferimento delle risorse» sembra preludere - ma sara' chiaro, anche se i margini per una differente opzione non paiono sussistere, quando verra' approvata la legge statale di trasferimento delle funzioni (di competenza statale) alle Regioni o ai Comuni - a un incremento della finanza derivata e a un superamento dell'attuale sistema di finanza autonoma. In ogni caso, quello che qui maggiormente rileva e' che la disposizione, in relazione alla finanza regionale, e' configurabile come un principio statale di coordinamento della finanza pubblica. E in questa veste impone, da subito, alle leggi regionali di riallocare funzioni con la costituzione di un sistema di finanza derivata, sia con riguardo alle funzioni residuali delle Province, sia con riguardo a quelle allocate ai Comuni, senza nessun rispetto dell'autonomia finanziaria regionale riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione. Si' impone alla Regione, in questi termini, il ritorno a un sistema di finanza di trasferimento, meramente derivata, piu' volte censurato da codesta ecc. ma Corte (cfr. gia' sentenza n. 370 del 2003, dove si precisa «la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni o degli enti locali contraddittorie con l'art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalita' o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali», ma anche le piu' recenti sulla autonomia finanziaria: dalle n. 16 e n. 37 del 2004 alla n. 102 del 2008). La ricaduta in termini di lesione delle competenze regionali e' evidente, non solo perche' menoma e trasfigura il potere di assegnazione in base al principio di sussidiarieta' (un conto e' assegnare funzioni amministrative a un ente dotato di autonomia finanziaria, un altro e' assegnarle ad un ente che, in violazione dell'art. 119 Cost., e' stato riportato a un sistema di finanza di trasferimento), ma anche perche' la disposizione obbliga la Regione a piegarsi, per il finanziamento delle funzioni amministrative (sia per quelle che puo' conservare in capo alle Province sia per quelle che trasferisce ai Comuni) a questa logica totalmente contraddittoria dell'art. 119 della Costituzione e della sua attuazione attraverso la riforma del federalismo fiscale con legge n. 42 del 2009 e relativi decreti legislativi, in particolare d.lgs. n. 68 del 2011. E' evidente, peraltro, che il ritorno a un sistema di finanza di trasferimento, cioe' totalmente deresponsabilizzante sul piano fiscale (lo Stato e la Regione trasferiscono e la Provincia spende) e' in chiara e netta antitesi con l'obiettivo di razionalizzare la spesa, come dimostrano tutti i guasti prodotti nel nostro sistema dal criterio della cd. spesa storica. La disposizione dell'art. 19 si pone quindi in aperta e palese violazione dell'intero art. 119 della Costituzione, menomando le competenze attribuite alla Regione, obbligata a istituire un sistema di finanza di trasferimento. In sostanza, l'impianto normativo prefigurato dai commi da 14 a 20 dell'art. 23 del decreto impugnato appare sotto questi profili in palese contrasto con la Costituzione e potenzialmente idoneo a creare gravissime difficolta' applicative, nonche' aumenti di costi superiori ai risparmi che potrebbe produrre. Come si e' in precedenza evidenziato, la revisione o la razionalizzazione costituzionale dei livelli di governo del sistema autonomistico italiano puo' senz'altro ritenersi opportuna, ma deve essere attuata con una legge di revisione costituzionale, dopo un approfondito esame della situazione e delle diverse soluzioni possibili. Soluzioni improvvisate, tecnicamente e economicamente discutibili, con aperti ed evidenti profili di incostituzionalita' possono creare guasti gravi al sistema in termini di gestibilita' e di costi aggiuntivi. Per questi motivi, si ritiene opportuno richiedere l'istanza di sospensione di queste norme impugnate, al fine di evitare il verificarsi di questa situazione. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 27, per violazione degli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione. L'articolo 27 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, recante la rubrica «Dismissioni immobili», detta una nuova disciplina della valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, che in piu' punti appare lesiva delle garanzie costituzionali dell' autonomia regionale. In particolare, il comma 1 inserisce un nuovo articolo (33-bis) nel decreto-legge n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, recante la rubrica «Strumenti sussidiari per la gestione degli immobili pubblici». Nel nuovo art. 33-bis si prevede, al comma 1, che l'Agenzia del demanio promuova «per la valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprieta' dei Comuni, Province, Citta' metropolitane, Regioni, Stato e dagli Enti vigilati dagli stessi, nonche' dei diritti reali relativi ai beni immobili, anche demaniali» - la costituzione di societa', consorzi o fondi immobiliari. Tutto cio', beninteso, «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Al comma 2, poi, si prevede che «L'avvio della verifica di fattibilita' delle iniziative di cui al presente articolo e' promosso dall'Agenzia del demanio...(omissis)». Al comma 3, poi, si aggiunge che «qualora le iniziative di cui al presente articolo prevedano forme societarie, ad esse partecipano i soggetti apportanti e il Ministero dell'economia e delle finanze - Agenzia del demanio, che aderisce anche nel caso in cui non vi siano inclusi beni di proprieta' dello Stato in qualita' di finanziatore e di struttura tecnica di supporto. L'Agenzia del demanio individua, attraverso procedure di evidenza pubblica, gli eventuali soggetti privati partecipanti.» e, ancora, che «La stessa Agenzia, per lo svolgimento delle attivita' relative all'attuazione del presente articolo, puo' avvalersi di soggetti specializzati nel settore, individuati tramite procedure ad evidenza pubblica o di altri soggetti pubblici». Con le disposizioni richiamate viene palesemente attribuito allo Stato, e per esso all'Agenzia del demanio, e soltanto ad essa, un ruolo determinante per la valorizzazione, trasformazione, gestione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprieta' delle Regioni e degli altri enti territoriali e enti vigilati dai medesimi: ruolo che si concretizza sia nella costituzione di societa', consorzi o fondi immobiliari, sia nella selezione degli eventuali soggetti privati partecipanti, sia nella selezione dei soggetti specializzati nel settore dei quali avvalersi. Il riferimento normativo anche ai beni demaniali, che sono stati trasferiti in larga parte alle Regioni col d.lgs. n. 85/2010 nel quadro del c.d. federalismo demaniale, palesa ulteriormente come le disposizioni statali censurate tendano a restituire allo Stato un ruolo primario e condizionante nella valorizzazione, gestione e alienazione dei beni immobili pubblici, inclusi quelli delle Regioni. Inoltre, l'espressa previsione che l'Agenzia del demanio promuova tutto cio' «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» (comma 1), e al contempo che la medesima Agenzia partecipi alle iniziative societarie anche quando non siano apportati beni statali, «in qualita' di soggetto finanziatore», lascia trasparire l'obiettivo di governare a livello statale il processo di valorizzazione anche degli immobili pubblici regionali, peraltro con risorse finanziarie messe a disposizione dalle regioni ed eventualmente dagli altri enti territoriali. Siffatte disposizioni si pongono pertanto in contrasto con gli articoli 118 e 119 della Costituzione, ove si prevede che le Regioni abbiano un proprio patrimonio e che quindi possano gestirne, nella loro autonomia amministrativa organizzativa e finanziaria, la valorizzazione. Il comma 7 del nuovo articolo 33-bis introduce disposizioni sostitutive dei commi l e 2 dell'art. 58 del decreto-legge n. 112 del 2008, cosi come convertito dalla legge n. 133 del 2008. L'art. 58 cit. reca la rubrica «Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali» e disciplina la procedura di dismissione, prevedendo la redazione di un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari (comma 1), con l'effetto di classificare i beni inclusi nell'elenco come patrimonio disponibile, e, ancora, prevede l'assegnazione ai beni in dismissione delle rispettive destinazioni d'uso urbanistiche con la deliberazione di approvazione da parte del consiglio comunale (comma 2). E' noto che il dettato originario del comma 2 e' stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, esclusa la prima proposizione, con sentenza n. 340 del 2009, per violazione della potesta' legislativa regionale in materia di governo del territorio: «Ancorche' nella ratio dell'art. 58 siano ravvisabili anche profili attinenti al coordinamento della finanza pubblica, in quanto finalizzato alle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti, non c'e' dubbio che, con riferimento al comma 2 qui censurato, assuma carattere prevalente la materia del governo del territorio, anch'essa rientrante nella competenza ripartita tra lo Stato e le Regioni, avuto riguardo all'effetto di variante allo strumento urbanistico generale, attribuito alla delibera che approva il piano di alienazione e valorizzazione. Ai sensi dell'art. 117, terzo comma, ultimo periodo, Cost., in tali materie lo Stato ha soltanto il potere di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio. La relazione tra normativa di principio e normativa di dettaglio va intesa nel senso che alla prima spetta prescrivere criteri ed obiettivi, essendo riservata alla seconda l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi» (ex plurimis: sentenze nn. 237 e 200 del 2009). La disposizione che ha sostituito il comma 2 dell'art. 58 incorre tuttavia nel medesimo vizio di costituzionalita'. Infatti, solo in apparenza si rimette alle Regioni la disciplina delle varianti urbanistiche eventualmente necessarie per assegnare destinazioni d'uso agli immobili pubblici in dismissione. Infatti, si stabilisce ora che «Le Regioni, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, disciplinano l'eventuale equivalenza della deliberazione del consiglio comunale di approvazione quale variante allo strumento urbanistico generale, ai sensi dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 87, anche disciplinando le procedure semplificate per la relativa applicazione». In questo modo, da un lato si impone alla Regione un termine brevissimo entro il quale esercitare la propria potesta' legislativa concorrente in materia di governo del territorio, dall'altro se ne prefigurano addirittura i contenuti in modo dettagliato. Inoltre, la novella prosegue col disporre - allo stesso modo gia' stigmatizzato - che «Le Regioni, nell'ambito della predetta normativa approvano procedure di copianificazione per l'eventuale verifica di conformita' agli strumenti di pianificazione sovraordinata, al fine di concludere il procedimento entro il termine perentorio di 90 giorni dalla deliberazione comunale». Infine, la novella statale disvela la propria finalita': «Trascorsi i predetti 60 giorni, si applica il comma 2 dell'articolo 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47». Essendo certo a priori che quel termine non puo' essere rispettato, stante la sua brevita' in rapporto all'esercizio della competenza legislativa regionale secondo le vigenti regole e procedure, la disposizione statale solo in apparenza rispetta l'autonomia regionale, come richiesto anche dalla sentenza n. 340 del 2009 di codesta Corte: in realta', si impone nuovamente alle Regioni una disciplina statale di dettaglio. Per di piu', si tratta di una disciplina inappropriata, in quanto l'art. 25, comma 2, legge n. 47/1985, nel prevedere l'approvazione regionale per silenzio assenso, dopo 120 giorni, fa riferimento quanto all'oggetto alle «norme di cui al comma precedente» e ai «provvedimenti di cui al precedente comma» che «si intendono approvati». Ma il precedente comma fa riferimento esclusivamente all'approvazione di strumenti attuativi in variante agli strumenti generali (lett. a), all'armonizzazione dei regolamenti edilizi comunali (lett. b) e a procedure semplificate per l'approvazione di varianti agli strumenti urbanistici generali «finalizzate all'adeguamento degli standards urbanistici posti da disposizioni statali o regionali» (lett. c): nulla che si riferisca al diverso tema delle varianti agli strumenti generali finalizzate ad attribuire una destinazione d'uso a immobili pubblici in dismissione. Conclusivamente, risulta violata la competenza costituzionalmente riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio ai sensi dell'art.117, III comma, della Costituzione. Il comma 2 dell'art. 27 del decreto impugnato inserisce poi un nuovo articolo 3-ter nel decreto-legge n. 351 del 2001, cosi come convertito dalla legge n. 410 del 2001, per disciplinare il «processo di valorizzazione degli immobili pubblici». Si prevedono e disciplinano dei «programmi unitari di valorizzazione territoriale» (commi 1-5) e degli accordi di programma (commi 6-10). In particolare, ai commi 6, 7 e 8, si prevede che il Presidente della Giunta regionale, ovvero l'Organo di governo preposto, promuova «la sottoscrizione di un accordo di programma ai sensi dell'articolo 34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonche' in base alla relativa legge regionale di regolamentazione della volonta' dei soggetti esponenziali del territorio di procedere alla variazione di detti strumenti di pianificazione, al quale partecipano tutti i soggetti, anche in qualita' di mandatari da parte degli enti proprietari, che sono interessati all'attuazione del programma. 7. Nell'ambito dell'accordo di programma di cui al comma 6, puo' essere attribuita agli enti locali interessati dal procedimento una quota compresa tra il 5% e il 15% del ricavato della vendita degli immobili valorizzati se di proprieta' dello Stato da corrispondersi a richiesta dell'ente locale interessato, in tutto o in parte, anche come quota parte dei beni oggetto del processo di valorizzazione. Qualora tali immobili, ai fini di una loro valorizzazione, siano oggetto di concessione o locazione onerosa, all'Amministrazione comunale e' riconosciuta una somma non inferiore al 50% e non superiore al 100% del contributo di costruzione dovuto ai sensi dell'articolo 16 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e delle relative leggi regionali per l'esecuzione delle opere necessarie alla riqualificazione e riconversione, che il concessionario o il locatario corrisponde all'atto del rilascio o dell'efficacia del titolo abilitativo edilizio». In particolare, al comma 8 si fissa un termine «perentorio» di 120 giorni per la conclusione dell'accordo di programma, imponendo altrimenti al Presidente della Giunta regionale di attivare e concludere le procedure entro 60 giorni. L'insieme di questa - invero farraginosa - disciplina, che scende nel dettaglio dei contenuti e delle procedure, appare incompatibile con l'autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Regione in materia di governo del territorio e di valorizzazione del proprio patrimonio, sia a livello legislativo che amministrativo e finanziario. Si pone anch'essa pertanto in violazione degli articoli 117, III comma, 118, I e II comma, e 119, ultimo comma, della Costituzione. 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 31, comma 1, per violazione degli articoli 114, 117, I e IV comma; 118 della Costituzione. 4.1. L'art. 31, comma l, del decreto-legge apporta una modifica al dettato normativo dell'art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (correntemente indicato anche come «decreto Bersani»). Il dettato normativo dell'art. 3, comma 1, del decreto Bersani, cosi come gia' modificato dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, era formulato nei termini seguenti: «Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale. 1. Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: a) l'iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attivita' commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande; b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attivita' commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio; c) le limitazioni quantitative all'assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali, fatta salva la distinzione tra settore alimentare e non alimentare; d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale; d-bis), in via sperimentale, il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte; e) la fissazione di divieti ad effettuare vendite promozionali, a meno che non siano prescritti dal diritto comunitario; f) l'ottenimento di autorizzazioni preventive e le limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, effettuate all'interno degli esercizi commerciali , tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti; f-bis) il divieto o l'ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l'esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitari. Distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1. 4. Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1° gennaio 2007.». A seguito della modifica, la disposizione al punto d-bis) e' stata riformulata nei termini seguenti: «d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale». In questo modo, e' stato eliminato in via generale ed assoluta ogni possibile limite relativamente agli orari e ai giorni di apertura e chiusura, sia per le attivita' commerciali in senso stretto che per le attivita' di somministrazione di alimenti e bevande (che d'ora in avanti indicheremo congiuntamente, per brevita', come «esercizi commerciali»). Viene cosi' abrogata per incompatibilita' la previgente disciplina statale degli orari di vendita, posta dagli artt. 11 e 12 del decreto legislativo n. 14/1998 e applicata nella Regione Veneto, ove si stabiliva: Art. 11 «Orario di apertura e di chiusura. 1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera determinazione degli esercenti nel rispetto delle disposizioni del presente articolo e dei criteri emanati dai comuni, sentite le organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti, in esecuzione di quanto disposto dall'art. 36, comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142. 2. Fatto salvo quanto disposto al comma 4, gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio possono restare aperti al pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette alle ore ventidue. Nel rispetto di tali limiti l'esercente puo' liberamente determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio esercizio non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere. 3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico l'orario di effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante cartelli o altri mezzi idonei di informazione. 4. Gli esercizi di vendita al dettaglio osservano la chiusura domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di chiusura infrasettimanale. 5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonche' ulteriori otto domeniche o festivita' nel corso degli altri mesi dell'anno.». Art. 12 «Disposizioni speciali. 1. Le disposizioni del presente titolo non si applicano alle seguenti tipologie di attivita': le rivendite di generi di monopolio; gli esercizi di vendita interni ai campeggi, ai villaggi e ai complessi turistici e alberghieri,. gli esercizi di vendita al dettaglio situati nelle aree di servizio lungo le autostrade, nelle stazioni ferroviarie, marittime ed aeroportuali; alle rivendite di giornali; le gelaterie e gastronomie; le rosticcerie e le pasticcerie; gli esercizi specializzati nella vendita di bevande, fiori, piante e articoli da giardinaggio, mobili, libri, dischi, nastri magnetici, musicassette, videocassette, opere d'arte, oggetti d'antiquariato, stampe, cartoline, articoli da ricordo e artigianato locale, nonche' le stazioni di servizio autostradali, qualora le attivita' di vendita previste dal presente comma siano svolte in maniera esclusiva e prevalente, e le sale cinematografiche. 2. Gli esercizi del settore alimentare devono garantire l'apertura al pubblico in caso di piu' di due festivita' consecutive. Il sindaco definisce le modalita' per adempiere all'obbligo di cui al presente comma. 3. I comuni possono autorizzare, in base alle esigenze dell'utenza e alle peculiari caratteristiche del territorio, l'esercizio dell'attivita' di vendita in orario notturno esclusivamente per un limitato numero di esercizi di vicinato.». La nuova disposizione statale travolge poi la legge regionale del Veneto 21 settembre 2007, n. 29, recante la Disciplina dell'esercizio dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, nella parte in cui disciplina gli orari di vendita. L'introduzione di un divieto siffatto sarebbe giustificata, come si evince dal comma l dell'art. 3 del decreto Bersani nel quale si incardina la novella, avuto riguardo a «le disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi» e al «fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione». 4.2. Ritiene la Regione Veneto che la modifica apportata all'art. 3, comma l, del decreto Bersani non costituisca ne' adeguamento dell'ordinamento interno al diritto dell'Unione europea ne' esercizio di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, lett. e) ed m), della Costituzione, in relazione alla tutela della concorrenza e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. 4.3. Quanto all'ordinamento dell'Unione, non e' dato ravvisarvi alcuna disposizione incompatibile con una normativa interna che disciplini giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, alla luce dell'interpretazione data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. 4.3.1. Con specifico riferimento al principio di libera circolazione delle merci e al correlato divieto (art. 34 TFUE) di misure equivalenti a restrizioni quantitative (intese secondo la nota «formula Dassonville»), la giurisprudenza comunitaria ha ben chiarito che non sono vietate quelle normative nazionali applicabili a tutti gli operatori che svolgono attivita' commerciale nello Stato membro considerato e che investono nella stessa maniera, in diritto e in fatto, la commercializzazione di prodotti nazionali e quella di prodotti importati. Particolarmente significative in questo senso sono state le sentenze Keck e Mithouard (24 novembre 1993, causa C-267-268/91, punti 16-17) e Hunermund (15 dicembre 1993, causa C-292/92, punto 21), ove la Corte non ha incluso fra le misure di effetto equivalente vietate quelle misure che attengono alle modalita' dell'attivita' commerciale e non al prodotto, non preordinate alla disciplina degli scambi e non collegate in alcun modo con la diversita' delle legislazioni nazionali sul prodotto, insuscettibili percio' di rendere, direttamente o indirettamente, nella forma o nella sostanza, meno facile l'accesso al mercato per i prodotti importati. Il criterio del mutuo riconoscimento delle differenti normative nazionali investe infatti le normative sul prodotto e non l'attivita' di vendita, cosicche' restano estranee al campo di applicazione dell'art. 34 TFUE quelle normative nazionali che non investono affatto gli scambi o l'integrazione dei mercati. In particolare, la Corte di giustizia ha fatto applicazione di questi principi proprio in tema di disciplina nazionale dei giorni ed orari di apertura degli esercizi commerciali (sentenze 23 novembre 1989, causa C-145/88, B & Q; 28 febbraio 1991, causa C-312/89; Conforama, e causa C-332/89, Marchandise; 16 dicembre 1992, causa C-169/91, B & Q; 2 giugno 1994, cause riunite C-69 e 258/93, Punto Casa e PPV, punto 12; 22 giugno 1994, causa C 401-402/92, Tankstation, punti 12-14; 20 giugno 1996, cause riunite C-418/93, C-419/93, C-420/93, C-421/93, C-460/93, C-461/93, C-462/93, C-464/93, C-9/94, C- 10/94, C-11/94, C-14/94, C-15/94, C-23/94, C-24/94 e C-332/94, Semeraro, punto 28). La Corte di giustizia ha riconosciuto che una normativa nazionale siffatta «persegue un obiettivo legittimo alla luce del diritto comunitario» in quanto «le discipline nazionali che limitano l'apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono l'espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarita' socio-culturali nazionali o regionali» e «spetta agli Stati membri effettuare queste scelte attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario» (cfr. in particolare il punto 11 della sentenza 16 dicembre 1992, citato al punto 25 della sentenza 20 giugno 1996). Corrispondentemente, la Corte di cassazione (sentenza 4 novembre 1994, n. 9129, resa a sezioni unite in sede di regolamento di giurisdizione) ha ribadito che la legislazione interna, statale e regionale, che vieta l'apertura domenicale degli esercizi di vendita al dettaglio non contrasta con il principio comunitario della libera circolazione delle merci, in quanto l'obbligo di chiusura non rientra nel suo campo di applicazione e non provoca discriminazioni, neppure dissimulate, tra prodotti nazionali e non nazionali. Conseguentemente, la Corte ha escluso di poter disapplicare il diritto interno a favore del diritto dell'Unione. 4.3.2. Anche con riferimento all'altro principio comunitario richiamato dal decreto Bersani, quello di libera prestazione di Servizi, quand'anche inteso in senso ampio cosi da includere il diritto di stabilimento, e' da ritenere che le disposizioni del TFUE che lo sanciscono (artt. 56 ss., 49 ss. TFUE) e cosi' pure la recente normativa europea di attuazione (direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno) non siano in alcun modo incompatibili con normative nazionali sui giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali. Il diritto di stabilimento nei Paesi membri e' riconosciuto agli operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto delle specifiche normative nazionali; infatti, fra gli ostacoli vietati o da monitorare secondo la direttiva «Bolkestein» non sono menzionate le regole interne sui giorni ed orari di apertura degli esercizi commerciali. Cio' rende superfluo osservare poi che la stessa direttiva «Bolkestein» ammette delle eccezioni ai divieti posti, in presenza di motivi imperativi di interesse generale, di talche' perfino nel suo ambito di applicazione permane uno spazio di operativita' per il diritto interno, e percio' in Italia anche per la legislazione regionale. 4.3.3. Neppure la disciplina della concorrenza posta dal diritto dell'Unione (artt. 101-109 TFUE) appare in alcun modo incompatibile con disposizioni nazionali su giorni ed orari di apertura degli esercizi commerciali che siano prive di effetti discriminatori ed anticoncorrenziali e prive di collegamenti con comportamenti propri delle imprese. Vero e', semmai, il contrario: misure nazionali di totale liberalizzazione dei giorni ed orari di apertura degli esercizi commerciali potrebbero finire proprio coll'agevolare comportamenti anticoncorrenziali, col favorire concentrazioni di imprese restrittive della concorrenza e lo sfruttamento abusivo di posizioni dominanti, a danno del consumatore e del suo diritto di fruire di una struttura distributiva articolata, diffusa e anche di prossimita' al tessuto urbano consolidato delle citta' e dei paesi ove si concentra la residenza (cfr. in questo senso la recente giurisprudenza amministrativa: p.es. TAR per il Veneto, sez. III, 28 luglio 2011, n 126; Id., n. 3819 del 2009). Lo stesso Parlamento europeo nella recente risoluzione 5 luglio 2011 (2010/2109(INI) su un commercio al dettaglio piu' efficace e piu' equo ha sottolineato «che le PMI costituiscono l'ossatura dell'economia europea e rivestono un ruolo unico nella creazione di posti di lavoro, in particolare nelle zone rurali, e nel favorire l'innovazione e la crescita nel settore del commercio al dettaglio nelle comunita' locali in tutta l'UE» (punto 17); ancora, che «la pianificazione del commercio al dettaglio deve fornire un quadro strutturale che permetta alle imprese di competere, rafforzare la liberta' di scelta dei consumatori e consentire l'accesso a beni e servizi, in particolare nelle regioni meno accessibili o scarsamente popolate oppure in caso di mobilita' ridotta dei consumatori» (punto 16) e ha insistito «sul ruolo sociale, culturale e ambientale svolto dai negozi e mercati locali per il rilancio delle zone rurali e dei centri urbani» (punto 16). 4.3.4. Sul piano della prassi europea, e' significativo che, secondo una recente analisi di Eurocommerce (all. 2), in tutti i Paesi membri dell'Unione giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali siano regolamentati, con fissazione di orari massimi di apertura nei giorni feriali, variabili secondo le condizioni climatiche e gli usi locali, e non sia mai concessa assoluta liberta' di apertura, in tutti i giorni dell'anno. E' parimenti significativo che non si abbia notizia di alcuna iniziativa da parte della Commissione UE volta a contestare le normative nazionali per infrazione al diritto UE. 4.4. Passando ora all'ordinamento interno italiano, la disciplina degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali non e' riconducibile nell'area della competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117 della Costituzione: non in quella della tutela della concorrenza, per considerazioni analoghe a quelle svolte con riferimento al diritto dell'Unione data la consonanza di principi e di regole, e neppure in quella della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettera m), della Costituzione. La possibilita' per il consumatore di acquistare merci e servizi in tutti i giorni festivi o in orari notturni non sembra infatti configurare un livello essenziale di prestazioni di cui debba assolutamente fruire, tanto piu' che, ove cosi' fosse, si renderebbe necessario introdurre semmai prescrizioni volte ad imporre agli operatori economici, quantomeno a rotazione, l'apertura festiva e notturna, appunto a tutela dei consumatori; mentre la disposizione censurata e' chiaramente orientata ad attribuire una mera facolta' agli operatori economici. L'acquisto di beni o servizi in ogni giorno ed ogni ora non e' d'altra parte riconducibile fra i diritti civili o i diritti sociali, nel significato attribuito dalla Carta costituzionale a questi termini, ne' dei consumatori, ne' degli esercenti. Che l'apertura domenicale indiscriminata non sia configurabile come diritto soggettivo degli esercenti e' stato sancito anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (ss.uu., sentenza 4 novembre 1994, n. 9129). 4.5. Che la disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali non ricada nell'ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato bensi' nella competenza esclusiva regionale in materia di commercio, e' assunto ormai consolidato nella giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sentenza n. 1 del 2004; ord. 11 maggio 2006, n. 199; sentenze 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2007, n. 165; 12 dicembre 2007, n. 430; 24 ottobre 2008, n. 350; 5 luglio 2010, n. 247; 8 ottobre 2010, n. 288; 21 aprile 2011, n. 150). La tutela della concorrenza non rappresenta dunque un limite «esterno», atto a comprimere, fino a svuotare, la competenza regionale nella materia del commercio; costituisce semmai un limite «interno» alla normativa regionale, nel senso che quest'ultima deve conformarsi ai generali obiettivi di non discriminazione fra operatori economici, di apertura al mercato e di eliminazione di barriere e vincoli al libero esplicarsi dell'attivita' economica (in questo senso, da ultimo, Corte cost., sentenze n. 18 del 23 gennaio 2012, n. 150 del 2011). Resta fermo, poi, che l'applicazione delle regole di tutela della concorrenza non puo' comunque spingersi fino a misconoscere o a pregiudicare altri valori che configurino motivi imperativi di interesse generale ritenuti meritevoli di tutela dallo stesso diritto dell'Unione, dalla Costituzione e dal diritto primario statale. L'esigenza di un ragionevole contemperamento tra valori e' al fondo di quella giurisprudenza costituzionale che, di recente, ha riconosciuto la legittimita' di leggi regionali in materia di commercio che introducevano differenziazioni di regime con riferimento alle dimensioni dell'impresa, in quanto ispirate all'esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese gia' operanti sul territorio regionale (sentenze n. 64 del 2007, n. 288 del 2010). 4.6. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, la disposizione di legge qui censurata, cosi' come formulata, nella sua assolutezza e inderogabilita', non trova affatto base giuridica legittimante ne' nel diritto dell'Unione ne' nell'art. 117, comma 2, della Costituzione e viola la competenza esclusiva regionale in materia di commercio attribuita dall'art. 117, comma 4, della Costituzione. Preclude conseguentemente alla Regione anche l'esercizio della propria autonomia amministrativa nella materia considerata e la possibilita' di attribuire funzioni amministrative ai Comuni. La novella legislativa ha un effetto opposto a quello perseguito. Essa non e' adeguata e proporzionata rispetto all'obiettivo e priva di qualsiasi tutela altri interessi pubblici specifici pur meritevoli anch'essi di cura. In particolare, finisce col precludere la stessa possibilita' di graduare il processo di liberalizzazione, in modo che non travolga gli operatori economici piu' deboli, il mondo delle piccole e medie imprese commerciali che per dimensioni e struttura non sono immediatamente in grado di competere 24 ore su 24, in tutti i giorni festivi dell'anno, cosi' come invece le grandi imprese distributive, col rischio di disarticolare un mercato distributivo caratterizzato fin qui da una pluralita' di formule e di offerte, capace di garantire anche servizi di prossimita', essenziali nei piccoli paesi e nei centri storici sia per i consumatori che per l'ambiente urbano e sociale. 4.7. Nel diritto vivente, segnatamente nella recente giurisprudenza amministrativa, non mancano precisi riferimenti alla pluralita' dei valori messi in gioco dalla disciplina dei giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali. Si e' affermato, fra l'altro, che una disciplina locale che differenziava le aperture domenicali entro e fuori le mura storiche di una citta' «mira ad una regolamentazione finalizzata a contemperare i principi e i valori della concorrenza con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della pluralita' tra diverse tipologie di strutture commerciali e della funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'» e che «alla luce di tale contemperamento vanno lette anche le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali» (TAR Emilia-Romagna, sentenza n. 8002 del 2010). Analogamente si e' espresso il TAR per il Veneto: «la vigente disciplina in materia di commercio (d.lgs. n. 114/98 e d.l. n. 223/06, conv. in legge n. 248/06) non persegue in via esclusiva una finalita' liberalizzatrice, connessa al solo scopo di tutelare la liberta' delle imprese e la concorrenza, in una prospettiva di sostanziale deregolamentazione del settore, giacche' questo obiettivo avrebbe quale esito estremo il rafforzamento sul mercato (delle imprese) di maggiori dimensioni a discapito proprio di un mercato concorrenziale, ed esaurirebbe l'intera disciplina nell'ambito della competenza legislativa statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo a negare una propria autonomia al "commercio" inteso come «materia attribuita alla competenza legislativa residuale delle regioni» (pacificamente riconosciuta invece dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: cfr. le sentenze 12 dicembre 2007, n. 430, punto 3.2.2. in diritto; 11 maggio 2007, n. 165; 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2006 , n. 199)»; «In ragione dei rilevanti effetti di carattere urbanistico e sociale che derivano dalla presenza o meno di esercizi commerciali sul territorio, la predetta disciplina mira a una regolamentazione finalizzata a contemperare i principi e i valori della concorrenza con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della pluralita' tra diverse tipologie delle strutture commerciali e della funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimita'... per l'art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, la disciplina sul commercio persegue anche le finalita' della tutela del consumatore, con particolare riguardo (...) alla possibilita' di approvvigionamento, al servizio di prossimita', del pluralismo ed equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse forme di vendita, con particolare riguardo al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese, e della valorizzazione e salvaguardia del servizio commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari»; «e' pertanto alla luce del contemperamento operato dal legislatore tra la pluralita' di questi interessi che devono essere lette anche le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, con la conseguente insussistenza di una regola che preveda la totale liberalizzazione dei giorni di apertura.» (sentenza n. 135 del 2010); «L'art. 6 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 attua tali principi prevedendo una programmazione della rete distributiva che: renda "compatibile l'impatto territoriale e ambientale degli insediamenti commerciali con particolare riguardo a fattori quali la mobilita', il traffico e l'inquinamento e valorizzare la funzione commerciale al fine della riqualificazione del tessuto urbano, in particolare per quanto riguarda i quartieri urbani degradati al fine di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio" (art. 6, comma 1, lett. c); salvaguardi e riqualifichi "i centri storici anche attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale" (art. 6, comma 1, lett. d); favorisca "gli insediamenti commerciali destinati al recupero delle piccole e medie imprese gia' operanti sul territorio interessato, anche al fine di salvaguardare i livelli occupazionali reali e con facolta' di prevedere a tale fine forme di incentivazione" (art. 6, comma 1, lett. f); individui "i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonche' dell'arredo urbano, ai quali sono sottoposte le imprese commerciali nei centri storici e nelle localita' di particolare interesse artistico e naturale" (art. 6, comma 2, lett. b); tenga conto dei "centri storici, al fine di salvaguardare e qualificare la presenza delle attivita' commerciali e artigianali in grado di svolgere un servizio di vicinato, di tutelare gli esercizi aventi valore storico e artistico ed evitare il processo di espulsione delle attivita' commerciali e artigianali" (art. 6, comma 3, lett. c). E' pertanto alla luce del contemperamento operato dal legislatore tra la pluralita' di questi interessi che devono essere lette anche le norme sugli orari e sulle giornate di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.» (TAR Veneto, sez. III, 28 luglio 2011, n 126, che richiama la propria sentenza n. 3819 del 2009; conf. TAR Emilia-Romagna, sez. Bologna, n. 8002 del 2010; TAR Piemonte, n. 3585 del 2009; v. anche TAR Lombardia - Milano, n. 5658 del 2010). 4.8. Gli effetti negativi della liberalizzazione assoluta, immediata e indifferenziata, dei giorni e degli orari di apertura degli esercizi commerciali introdotta dalla disposizione statale censurata si colgono con evidenza particolare a quegli esercizi che somministrano alimenti e bevande. Ora quei locali possono restare aperti ininterrottamente, anche per tutta la notte, dovunque, inclusi i centri storici, le zone prossime ai beni culturali, i luoghi densamente abitati. Gia' era alta la tensione sociale provocata dalla difficolta' di contemperare l'attivita' di quei locali, fin qui aperti fino alle 2 di notte, con il diritto al riposo dei residenti nella zona circostante, con la mancanza di un adeguato servizio minimo notturno di tutela dell'ordine e sicurezza pubblici, dei beni culturali, dell'igiene pubblica. E' noto che la pubblica amministrazione e la forza pubblica non dispongono di risorse sufficienti ad assicurare neppure un controllo minimo del territorio nelle ore notturne; l'allarme e' elevato e gli stessi operatori economici sono disorientati e si rivolgono all'amministrazione invocando una disciplina ragionevole ed uniforme. Le stesse associazioni dei consumatori segnalano il disorientamento dei clienti, che non dispongono piu' di informazioni preventive e certe sull'apertura degli esercizi commerciali e esprimono forte disagio di fronte ad una imprevedibilita' che nuoce alle loro primarie esigenze di programmazione degli acquisti. Il risultato realmente conseguito dalla misura statale si sta rivelando controproducente ed incoerente con lo stesso obiettivo dichiaratamente perseguito, di meglio tutelare i consumatori e di rafforzare la concorrenza leale e trasparente. 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 35, per violazione degli articoli 3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e del principio di leale collaborazione di cui all'art.120 della Costituzione. L'art. 35 del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 22 dicembre 2011 n. 214, conferisce all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato il potere di intervenire con un parere motivato, entro sessanta giorni, su tutti gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica, statale, locale o regionale, che ritenga emanati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato. La disposizione prevede poi che se la pubblica amministrazione non si conformi nei sessanta giorni successivi, l'Autorita' possa presentare, per il tramite dell'Avvocatura dello Stato, ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. In questo modo, si finisce col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimita', su iniziativa di un'Autorita' statale, per certi aspetti analogo a quella forma di controllo che era originariamente prevista dal previgente primo comma dell'articolo 125 della Costituzione ed e' stata poi abrogata con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Si deborda pero' dai limiti ricavabili dalla sentenza n. 64 del 2005 di codesta ecc.ma Corte: «E' vero che, con il nuovo titolo V della Costituzione, i controlli di legittimita' sugli atti amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro ordinamento, a seguito dell'abrogazione del primo comma dell'art. 125 e dell'art. 130 della Costituzione, ma questo non esclude la persistente legittimita', da un lato, dei c.d. controlli interni (cfr. art. 147 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) e, dall'altro, dell'attivita' di controllo esercitata dalla Corte dei conti, legittimita' gia' riconosciuta da una molteplicita' di decisioni di codesta Corte sulla base di norme costituzionali diverse da quelle abrogate (cfr. sentenze nn. 470 del 1997; 335 e 29 del 1995)». Sotto altro profilo, con l'attribuzione all'Autorita' di una generale legittimazione processuale attiva ad impugnare gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che a suo parere violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato, la disposizione, modificando la legge n. 287 del 1990, configura, come e' gia' stato osservato da una parte della dottrina, una surrettizia introduzione della figura del Pubblico Ministero nel processo amministrativo, contrastante con la sua natura strutturale di giurisdizione soggettiva. Cio' contrasta con l'art. 113, I comma, della Costituzione, dove si prevede che sia la titolarita' di una posizione giuridica sostanziale, e la lesione della stessa ad opera del potere amministrativo, la condizione generale per agire innanzi al giudice amministrativo. Ne' e' ipotizzabile che l'Autorita' Garante della concorrenza e del mercato, avendo essa il compito di tutelare l'interesse pubblico o generale, possa godere di una legittimazione straordinaria a tutela dell'interesse collettivo degli imprenditori o dei consumatori. Non mancano poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto. Manca una disciplina del termine di decorrenza dei 60 giorni entro i quali l'Autorita' puo' formulare il proprio parere motivato, prodromico all'eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi 30 giorni. Siffatta incertezza sul dies a quo si riflette sulla stabilita' degli atti regolamentari e provvedimentali regionali, con ulteriore lesione - per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell'art.3 della Costituzione e ai sensi dell'art.97 sul buon andamento della pubblica amministrazione - della sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita. Ancora, la legittimazione ad agire dell'Autorita' non appare coordinata con la legittimazione propria delle parti private, di talche' il ricorso dell'una potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in favore di parti private decadute dal termine per proporre l'impugnativa ordinaria. Palese e' poi l'incongruenza che si determina quando l'Autorita', tenuta ad avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura di Stato, impugni atti di un'amministrazione statale, tenuta pur essa ad avvalersi dell'Avvocatura di Stato. Si ravvisa in tutto quanto esposto la violazione degli articoli 3, 97, I comma, 113, I comma della Costituzione, 117, VI comma, 118, I e II comma, nonche' della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e del principio di leale collaborazione. La violazione delle suddette norme si risolve poi anche in una menomazione della potesta' regolamentare e amministrativa costituzionalmente garantita alla Regione ai sensi degli articoli 117, VI comma, e 118, I e II comma. 6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 44-bis, per violazione degli articoli 97, 117 e 118 della Costituzione e del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione. Preliminarmente all'esposizione delle argomentazioni avverso l'articolo 44-bis, la difesa regionale reputa necessario analizzare le circostanze e le condizioni dalle quali ha tratto origine la disposizione. Particolarmente utile a tale scopo appare la lettura del Dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati, dal quale si evince che l'articolo in argomento e' stato introdotto durante l'esame in sede referente e che lo stesso riproduce sostanzialmente il contenuto di due proposte di legge statali (C. 2727 e C 4161) giacenti nelle commissioni della Camera dei deputati e di un disegno di legge (S. 2596) pendente nelle commissioni del Senato. L'inserimento del testo di cui si tratta durante l'esame della legge di conversione da parte della Commissione in sede referente, e' stato evidentemente frutto di una frettolosa redazione dell'articolato che appare stilato accorpando una pluralita' di disposizioni contenute nelle proposte legislative summenzionate. Per un verso, quindi, l'integrazione, che assume particolare rilevanza per le Regioni, non e' stata concertata nelle sedi istituzionali deputate, in quanto e' stata decisa soltanto per effetto dell'esame compiuto dalle commissioni parlamentari; per altro verso, l'esigenza di evitare lo spreco di risorse finanziarie derivante dalla persistente condizione di incompletezza delle opere pubbliche per le quali comunque sovente erano state gia' impiegate ingenti somme, ha conferito alla norma quella connotazione straordinaria di necessita' e urgenza - propria della decretazione di cui all'articolo 77 della Costituzione - secondo un assunto autoreferenziale incompatibile con il parametro di legittimita' invocato, atteso che proprio il protrarsi ingiustificato dei lavori, in assenza di qualsiasi risultato utile, ha determinato - per poter legittimare l'intervento di cui si tratta - una simile qualificazione in ordine ad opere che originariamente non possedevano tali caratteristiche, come testimoniano appunto le proposte legislative di cui erano state fatte oggetto e che erano finalizzate, per converso, all'emanazione di una mera legge ordinaria ai sensi degli articoli 70 e ss. della Costituzione. La norma de qua istituisce, dunque, un elenco-anagrafe statale presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, articolato a livello regionale, al fine del coordinamento dei dati relativi alle opere pubbliche incompiute come definite ai commi 1 e 2 della medesima disposizione. L'operativita' dell'elenco istituito ex lege spetta al Ministero competente che, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, con proprio regolamento, e' investito del compito di definire le modalita' di redazione, di formazione della graduatoria nonche' i criteri in base ai quali le opere sono iscritte nell'elenco, tenendo conto dello stato di avanzamento dei lavori ed evidenziando le opere prossime al completamento. Proprio la previsione di un potere regolamentare in capo al Ministero, al riguardo, potrebbe fondare la supposizione che, giusta il disposto del comma sesto dell'articolo 117 della Costituzione, si vena in una materia di legislazione statale esclusiva. E invero, se si considera l'oggetto sostanziale della norma in esame, cioe' la creazione una banca dati telematica finalizzata alla comunicazione di flussi informativi tra lo Stato e le Regioni, si potrebbe ragionevolmente ricondurre la norma di cui si tratta alla materia «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale» di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera r) della Costituzione. Ma la disposizione, in realta', ad avviso dello scrivente patrocinio, presenta contenuti applicativi che non possono esaurirsi nell'individuazione di un ambito di sicura competenza esclusiva statale ed esorbitano dall'anzidetto contesto per i motivi di seguito specificati che legittimano l'impugnazione de qua. Infatti, per effetto dell'inquadramento normativo proposto, afferente l'ambito della disciplina statale, si rende comunque necessario soffermare l'attenzione sulla tipologia dei dati che devono essere inseriti nell'elenco-anagrafe citato; si tratta, cioe', di informazioni correlate alle opere pubbliche incompiute come definite ai commi l e 2 della medesima disposizione e la formulazione del testo non permette di individuare con sicurezza se le stesse siano solo quelle di competenza dello Stato o, per converso, includano anche quelle di competenza regionale. E invero, che nell'elenco in argomento siano da annoverarsi anche opere pubbliche di ambito regionale, potrebbe indursi dalla previsione di una sub-articolazione regionale, sempre che la stessa non sia invece da intendersi quale articolazione organizzativa del Ministero indicato quale titolare esclusivo della funzione di censimento e gestione dei dati. Ma, sul punto, un elemento sicuramente corroborante l'ipotesi che le opere pubbliche regionali siano anch'esse oggetto della norma, al pari di quelle statali, e' rinvenibile nella previsione contenuta al comma della disposizione, laddove, evocando competenze ed attribuzioni diverse da quelle meramente statali, testualmente cosi' recita: «Ai fini dei criteri di cui al comma 5 - cioe' i criteri di adattabilita' delle opere ai fini del loro riutilizzo ed i criteri che indicano le ulteriori destinazioni a cui puo' essere adibita ogni singola opera - si tiene conto delle diverse competenze in materia attribuite allo Stato e alle regioni.» L'affermazione, nel contesto considerato, appare di difficile inserimento se non addirittura apodittica, qualora si postuli la sussistenza di un ambito esclusivo di competenza legislativa statale, poiche' conduce inequivocabilmente a concludere che i dati informativi dell'elenco di cui si tratta non siano solo quelli di competenza esclusiva dello Stato, ma anche dichiaratamente quelli regionali. In altri termini, risulta esercitata una potesta' legislativa esclusiva in ambiti che, per esplicita ammissione del legislatore, seppure indifferenziata, sono riferibili ad una pluralita' di competenze che la Costituzione attribuisce sia allo Stato che alle Regioni. Da cio' si deduce l'incontrovertibile conclusione che le opere pubbliche incompiute possano riguardare anche ambiti materiali di competenza concorrente o residuale regionale. Dato per assunto l'enunciato che precede, non resta che definire l'ambito materiale afferente le opere pubbliche a cui si riferiscono i dati informativi da inserire nell'elenco, al fine di delineare compiutamente le diverse competenze ripartite tra lo Stato e le Regioni. Al riguardo, codesta ecc.ma Corte, nella decisione n. 303 del 2003, aveva per la prima volta asserito che i lavori pubblici «non sono inquadrabili in una materia ma si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potesta' legislative esclusive dello Stato ovvero a potesta' legislative concorrenti». Ne consegue che le diverse competenze statali o regionali non riguardano la «materia» in se' considerata, ma e' l'oggetto del lavoro pubblico, cioe' la tipologia dell'opera pubblica, l'elemento qualificante che puo' afferire a settori riconducibili a materie di competenza esclusiva statale, di competenza concorrente o di competenza residuale regionale. Pertanto, se l'elenco de quo si riferisce a tutte le opere pubbliche esistenti ed incompiute secondo le definizioni date, non puo' non includere anche quelle riconducibili a settori esclusivi regionali. Qualora, continuando nella linea argomentativa prospettata, e accogliendo la ricostruzione ermeneutica appena delineata, la norma si fosse limitata a disciplinare solo le modalita' di comunicazione di flussi informativi, funzionali alla costituzione e manutenzione dello strumento conoscitivo dato dalla banca dati, in effetti non sarebbe ravvisabile alcun vulnus alle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite. Conseguentemente, per quanto attiene tale specifico profilo, la disposizione non puo' che essere interpretata in senso conforme a Costituzione, nel senso che lo Stato deve limitarsi a dettare le regole tecniche funzionati alla comunicazione dei sistemi. Si richiama, al riguardo, la sentenza n. 133 del 2008, nella parte in cui codesta ecc.ma Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimita' costituzionale di disposizioni che, in quanto destinate a favorire il riuso dei software elaborati su committenza del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione avevano unicamente lo scopo di razionalizzare la spesa e, nel contempo, favorire l'uniformita' degli standard. Tale pronuncia, emessa in riferimento alla materia del «coordinamento informatico», ha cosi' sancito l'applicabilita', anche nei confronti delle Regioni e degli enti locali, di disposizioni - dettate per creare strumenti omogenei destinati al contenimento dell'impiego di risorse finanziarie - che si collocassero all'interno della linea di confine assegnata alla competenza esclusiva statale, in quanto recanti regole tecniche funzionali alla comunicabilita' dei sistemi ed al loro sviluppo collaborativo. Per converso, nel caso in cui vengano introdotte nel tessuto ordinamentale norme che, apparentemente indirizzate agli scopi sopra descritti, contengano in realta' l'attribuzione allo Stato del potere di individuare criteri di adattabilita' delle opere finalizzati al riutilizzo delle medesime, nonche' criteri funzionali all'individuazione di ulteriori destinazioni dell'opera stessa, si pone in essere un intervento legislativo fisiologicamente idoneo a pregiudicare, sovvertendola drasticamente, l'autonomia di esercizio delle competenze legislative ed amministrative regionali, come garantite dagli articoli 117 e 118 della Costituzione, poiche' strettamente correlate alle opere pubbliche direttamente imputabili alla sfera giuridica regionale. Ed invero le determinazioni riferite al riutilizzo o alla diversa destinazione dell'opera pubblica rimasta incompiuta che sia, per quanto detto, riconducibile a settori di esclusiva competenza regionale, devono necessariamente competere in via assoluta alla Regione interessata. In tale contesto non pare poter sussistere alcuna potesta' statale generalizzata, atteso che, qualora si concepisse una eventuale attrazione, attraverso l'esercizio delle funzioni amministrative, di potesta' legislative diverse a quelle esclusive statali, l'intervento normativo potrebbe essere legittimamente posto in essere solo ed esclusivamente secondo le forme e le modalita' della c.d. «sussidiarieta' verticale». Ma si tratta di modalita' e forme del tutto insussistenti in tale fattispecie. Singolarmente insufficiente, e per l'effetto significativamente lesiva, risulta cosi' la mera previsione, contenuta al comma 7 della norma impugnata, secondo cui il regolamento ministeriale, destinato a definire i criteri di adattabilita' e delle ulteriori destinazioni delle opere pubbliche regionali, dovrebbe semplicemente «tenere conto delle diverse competenze». La disposizione, infatti, per come e' stata strutturata, e' sicuramente contraria ai parametri di garanzia costituzionale delineati proprio da codesta ecc.ma Corte Costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003, che afferma la necessarieta' di imporre «ai principi di sussidiarieta' e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiche' l'esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla finzione amministrativa, anche quella legislativa, puo' aspirare a superare il vaglio di legittimita' costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attivita' concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealta'.» Appare cosi di tutta evidenza come, al contrario, in tale fattispecie sia stato omesso qualunque riferimento al dovuto coinvolgimento regionale sul punto, da congegnare nella forma della necessaria intesa, proprio come ribadito nella menzionata decisione n. 303 del 2003. Ne consegue che le modalita' di redazione e di formazione della graduatoria, nonche' i criteri di cui al comma 5, tutti indubbiamente riferibili all'attuazione dell'elenco anagrafe statale, laddove fossero intesi riferiti anche ad opere pubbliche afferenti a materie di competenza concorrente o di competenza esclusiva regionale, dovrebbero necessariamente essere concordati mediante lo strumento dell'intesa raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni. L'omessa previsione di un tale strumento concertativo risulta pertanto contraria al principio di leale collaborazione nei rapporti tra Stato e Regioni riconosciuto nell'articolo 120 della Costituzione. Sul punto non pare potersi fondatamente obiettare che il riferimento alla competenza esclusiva annessa a quel «coordinamento informativo statistico ed informatico» di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera r), della Costituzione escluda il coinvolgimento regionale nelle ipotesi in cui detta materia si intrecci con altre competenze regionali. Si rammenta, al riguardo, come codesta ecc.ma Corte, nella sentenza n. 31 del 2005, abbia dichiarato l'illegittimita' del comma 3 dell'articolo 26 della legge n. 289 del 2003 in quanto la previsione ivi contenuta, nella parte in cui contemplava il mero parere della Conferenza Unificata, non era stata ritenuta dal giudice delle leggi misura adeguata a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione di cui si e' detto. Ed invero in tale pronuncia e' stato chiarito il principio, qui invocato, per il quale, per quanto la disposizione in esame sia riconducibile alla materia «coordinamento informativo statistico ed informatico» di spettanza esclusiva del legislatore statale, la stessa presenta un contenuto precettivo idoneo a determinare una forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni propria della materia «organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali», con cio' rendendo indispensabile garantire un piu' incisivo coinvolgimento nella fase di attuazione delle disposizioni attraverso il corretto ricorso allo strumento dell'intesa. Per altro verso, la norma si presta a essere oggetto di censura anche secondo un ulteriore ed autonomo taglio ermeneutico, desumibile da eventuali finalita' di natura finanziaria, collegate allo spreco delle risorse economiche impiegate per tali opere rimaste appunto incompiute, e che come tale sarebbe riconducibile alla materia concorrente del «coordinamento della finanza pubblica». Infatti, anche a voler aderire a simile prospettazione interpretativa, in ogni caso rimarrebbe del tutto impregiudicata ed inalterata la titolarita' dell'opera che non potrebbe subire trasformazioni radicali al punto da essere qualificata statale anche se di competenza regionale. Nello specifico, codesta ecc.ma Corte, nella decisione n. 302 del 2003, seppure intervenendo in un giudizio instaurato in epoca antecedente la novella costituzionale del 2001, quando cioe' il riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni presentava contenuti del tutto diversi dagli attuali, aveva tuttavia affermato che «si deve escludere che il criterio del finanziamento prevalente sia suscettibile di trasferire un'opera pubblica dalla sfera di competenza regionale a quella statale.». Si rammenta come, nella sentenza n. 79 del 2011, codesta ecc.ma Corte abbia riconosciuto la sussistenza di una deroga alla competenza regionale, per effetto dell'avvenuta classificazione dell'opera tra quelle di valore strategico nazionale con conseguente provvista, da parte dello Stato, dei mezzi finanziari per realizzarla. E tale assunto non puo' non valere anche relativamente alla disposizione impugnata, per quanto la stessa non esaurisca il proprio ambito applicativo alle sole opere strategiche di cui alla legge 21 dicembre 2001, n. 443, come era invece previsto nella proposta di legge C. n. 4161 e nel disegno di legge S. n. 2596, con statuizione certamente piu' omogenea e costituzionalmente orientata. La specificazione, contenuta al comma 4, secondo il quale «l'elenco-anagrafe di cui al comma 3 e' articolato a livello regionale mediante l'istituzione di elenchi-anagrafe presso gli assessorati regionali competenti per le opere pubbliche» si configura come decisamente invasiva della sfera di titolarita' legislativa concernente l'organizzazione regionale tutelata dal combinato disposto degli articoli 97 e 117, quarto comma della Costituzione. Altrimenti detto, il precetto di dettaglio contenuto nella norma censurata laddove prevede che lo Stato, dopo aver istituito l'elenco nazionale, certamente di propria spettanza, pervenga a declinare il modello dell'articolazione, non puo' comprimere la potesta' regionale cui compete la strutturazione dello schema organizzativo, nel quale e' certamente ricompresa anche l'individuazione del soggetto detentore dell'elenco di cui si tratta. L'attribuzione e la ripartizione delle funzioni amministrative regionali, e quindi anche la tenuta e gestione dell'elenco, compete espressamente ad un organo regionale, ovvero alla Giunta regionale, ai sensi dell'ordinamento regionale veneto vigente. La sussistenza della competenza legislativa regionale anche nell'ambito della materia «lavori pubblici», e' stata infatti riconosciuta anche da Codesta ecc.ma Corte nella decisione n. 53 del 2011, per l'appunto in relazione ai profili meramente organizzativi, in quanto attinenti all'organizzazione interna degli apparati amministrativi e tecnici regionali. La lesione prodotta dalla norma impugnata nell'odierno giudizio, nella parte in cui ignora la potesta' organizzativa esistente in materia come tutelata dalla Carta Fondamentale, e' aggravata dalla mancata previsione di una clausola di cedevolezza che, limitando l'efficacia del precetto statale, consentisse l'integrazione normativa regionale con cio' riconoscendone le attribuzioni. Sul punto, si richiama anche quanto asserito da codesta ecc.ma Corte nella sentenza n. 401 del 2007, che ha dichiarato l'illegittimita' della disposizione -riferita alla composizione della commissione giudicatrice - contenuta nell'articolo 84 del decreto legislativo n. 163 del 2006, poiche' non prevedeva una clausola di cedevolezza rispetto alla normativa regionale divergente, cosi' assumendo la sussistenza della lamentata violazione della potesta' organizzativa riconosciuta agli enti diversi dallo Stato. Appare di tutta evidenza come il quadro giuridico e istituzionale sopra delineato, afferente le potesta' legislative ed amministrative correlate all'allocazione dei compiti nell'ambito del modello organizzativo regionale, non possa subire consistenti alterazioni per la ritenuta primazia di quelle esigenze di uniformita' nazionale connesse al «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati» certamente di competenza esclusiva statale. Ed invero in tale fattispecie non si vede come, qualora la Regione legittimamente indicasse la struttura regionale competente alla tenuta e gestione dell'elenco, potesse risultare compromesso il mero coordinamento informativo di dati che si realizzerebbe comunque per effetto della connessione della banca dati. Per questo, la inderogabile indicazione, come effettuata nella norma, del soggetto legittimato a detenere i dati, individuato oltretutto in un rappresentante politico e non in un organo tecnico, si configura ultronea e patentemente lesiva della autonomia regionale. Il patrocinio regionale, al riguardo, invoca fermamente il principio espresso da codesta ecc.ma Corte nella decisione n. 376 del 2003, gia' richiamata, per il quale solo il mero coordinamento informativo perseguito dallo Stato nell'ambito della materia di competenza esclusiva, per se' solo non puo' essere legittimato a ledere sfere di autonomia costituzionalmente garantite. L'eccedenza dell'ambito di previsione, ove non necessaria e proporzionata al conseguimento dell'obiettivo statale, integra, correlativamente, un vulnus alle prerogative regionali costituzionalmente garantite. Sul punto specifico, inoltre, come codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare nella decisione n. 271 del 2005 «questo esclusivo potere legislativo statale concerne solo un coordinamento di tipo tecnico che venga ritenuto opportuno dal legislatore statale e il cui esercizio, comunque, non puo' escludere una competenza regionale nella disciplina e gestione di una propria rete informativa». Se dunque non si ravvisano assiomi ostativi a che una Regione possa gia' aver introdotto nel proprio tessuto organizzativo una propria banca dati delle opere pubbliche, nella piena titolarita' delle proprie competenze, una disposizione statale che intervenisse al riguardo potrebbe al piu' solamente affermare la necessarieta' del coordinamento, da cui scaturirebbe la valutazione opzionale, per l'Amministrazione regionale, di modellare la banca dati gia' esistente, adeguandola, in ragione degli standard funzionali alla gestione, oppure di crearne una nuova, dedicata all'assolvimento degli obblighi di coordinamento statale di cui si e' detto, fatta salva, in ogni caso, la concertazione circa la definizione dei parametri e dei criteri di uniformita' che non possono essere autoritativamente imposti per quanto supra argomentato. La pretesa regionale all'espunzione della disposizione de qua non appare affatto irragionevole ne' eccessiva, atteso che l'infelice formulazione dell'articolo, come gia' ipotizzato, frutto di stesure frettolose e non coordinate, appare ancora piu' stridente se confrontata con leggi successive, concettualmente correlate alla norma odiernamente impugnata, quali il d.lgs. 29 dicembre 2011, n. 229, «Attuazione dell'articolo 30, comma 9, lettere e), f), e g), della legge 31 dicembre 2009, n.196, in materia di procedure di monitoraggio sullo stato di attuazione delle opere pubbliche, di verifica dell'utilizzo dei finanziamenti nei tempi previsti e costituzione del Fondo opere e del Fondo progetti», pubblicato nella G.U. n. 30 del 6 febbraio 2012 ed entrato in vigore il 21 febbraio 2012. Tale decreto, in concreto, nel disciplinare un sistema gestionale informatizzato finalizzato al monitoraggio delle opere pubbliche e interessante tutte le pubbliche amministrazioni, lungi dal dettare precetti incidenti sull'assetto organizzativo delle stesse, si limita correttamente a dettare regole specifiche indispensabili alla funzionalita' del sistema in riferimento alle caratteristiche ed alle finalita' dell'intervento normativo, per molte ragioni non dissimile da quello oggetto del presente giudizio. Istanza di sospensione Ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003 La Regione del Veneto chiede che codesta ecc.ma Corte, nelle more del giudizio di legittimita' costituzionale delle disposizioni di legge statale qui censurate, sospenda l'esecuzione degli articoli 23, commi da 14 a 20, e 31, comma 1, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87/53, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131/2003, che tanto consente in presenza di un rischio di pregiudizio grave e irreparabile all'interesse pubblico o per i diritti dei cittadini. Quanto all'art. 23, commi da 14 a 20, ne deriva la immediata preclusione delle elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali sciolti o in scadenza. Cio' determina, nel Veneto, l'effetto immediato di impedire l'indizione per la prossima primavera 2012 delle elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Belluno, attualmente sciolto, e del consiglio provinciale di Vicenza, in scadenza di mandato. I cittadini di quelle province si vedono dunque negato l'elettorato attivo e la rappresentanza democratica a livello provinciale, e alla Regione del Veneto e' preclusa la possibilita' di continuare ad avvalersi di quegli Enti per l'esercizio delle numerose ed importanti funzioni loro attribuite. A quest'ultimo proposito, poi, le disposizioni censurate impongono alla Regione del Veneto di provvedere entro il 31 dicembre 2012 al trasferimento delle funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, nonche' delle loro risorse umane, finanziarie e strumentali, ai Comuni o alla Regione stessa per assicurarne l'esercizio unitario, a pena di subire il potere sostitutivo statale. Si tratta di adempimenti che richiedono interventi sia legislativi che amministrativi complessi e onerosi anche sul piano finanziario ed organizzativo, con riflessi anche su migliaia di dipendenti. Risponde all'interesse generale evitare l'avvio di un processo di tali dimensioni - che avrebbe effetti irreversibili sulle istituzioni, sui dipendenti, sulla vita dei cittadini - prima che ne sia approfonditamente valutata la compatibilita' costituzionale. Quanto all'art. 31, comma 1, l'improvvisa deregolamentazione sta recando grave pregiudizio proprio alla concorrenza e trasparenza del mercato, e alla certezza del diritto per tutte le parti coinvolte, operatori economici e consumatori. La istantanea soppressione di ogni limite agli orari e giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, specie con riguardo alle attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, sta determinando nel Veneto un forte allarme sociale, anzitutto con riguardo alla sicurezza pubblica nelle ore notturne, e un grave disorientamento sia della clientela che degli operatori e delle stesse amministrazioni comunali, incalzate dalla popolazione a intervenire d'urgenza per dare indicazioni univoche e criteri di comportamento uniformi. Gia' si profila un diffuso contenzioso. Risponde dunque all'interesse generale sospendere l'esecuzione dell'art. 31, comma 1, nelle more del giudizio di legittimita' costituzionale, per evitare pericoli per la sicurezza pubblica e il rischio concreto di un'irreversibile alterazione del mercato, a danno soprattutto delle piccole e medie imprese.